Artista poliedrico per eccellenza, Desiderio si dà all’arte senza risparmiarsi, creando feconde contaminazioni tra diversi ambiti e molteplici tecniche
Se dovessi guardare indietro, alle varie cose che ho fatto realmente anni fà, non avrei mai pensato a una traiettoria simile. Di fondo c’è sempre stato il disegno, però con il tempo per estrema schizofrenia ho intrapreso strade del tutto diverse per capire dove potevo spingermi anche se non avevo una tavolozza e dei colori in mano. Fondamentalmente è una questione di linguaggio, limitarsi a un medium non ha senso. Questo l’ho sempre pensato, però naturalmente ognuno ha i suoi tempi di maturazione.
Come Man Ray che utilizzava la fotografia per sostituirla a quello che non voleva dipingere. Potrei benissimo fare quadri giganti nel mio studio, affogato nei colori, mentre gestisco un portale di musica elettronica, posto articoli e preparo la Premiere del mio secondo film dall’altra parte del mondo. Tutto questo mentre il mio compagno di merende mi dice di mettere da parte uno dei tanti video che potrebbero essere utili per un altro progetto. Domani non so cosa mi attirerà o per lo meno non voglio chiedermelo. Vorrei arrivarci per il mio modo di essere.
Che ruolo ha la musica nella tua vita e nella tua arte?
La musica è sempre stata vicina. Mi ha sempre accompagnato in tutto quello che ho fatto, da quella che respiro in studio fino ai miei viaggi. Sempre. Ho un certa predisposizione per il beat elettronico, non perché non mi piaccia altro, ne faccio quasi una necessità fisica, è il ritmo che scandisce la mia testa e il mio cuore. Un cantautore mi distoglierebbe dal mio processo mentale perché entrerei nel suo. In alternativa amo ascoltare la pioggia o, se devo trovare il punto, il completo silenzio.
Cosa non deve mancare nel tuo studio?
Sicuramente parlare del mio studio significa che non può mancare la puzza di colori e tutto ciò che mi serve a portata di mano, da un obiettivo della telecamera, ai miei libri e sicuramente la mia console per mettere musica. Chi mi conosce sa che il mio spazio è off limits in fase di produzione, però se proprio devo pensare ad una cosa specifica che non dovrebbe mai mancare nel mio studio, forse direi una coperta per chi viene a trovarmi di inverno, magari per montare un video. Non amo riscaldamenti o stufette quando lavoro: recentemente ho visto che reggo fino a -7°.
Come vivi nel tuo studio? Di che ti cibi per alimentare la tua curiosità?
Al mio studio con il passare degli anni ho dato sempre più una connotazione personale. Tutto a misura, ogni cosa messa perché diventi una mia estensione. Se lavoro o faccio altro tutto diviene lo specchio di come mi sento in quel momento. Lavorare per mesi significa lasciare tutto al suo posto, non fare entrare nessuno, per poi tirarlo a lucido quando finisco. La mia curiosità si alimenta sempre partendo da spunti quotidiani, cose che a volte vivo di persona e poi si trasformano come fossero dei mondi paralleli. Di solito la scintilla parte sempre poco prima di addormentarmi o quando sono in moto.
Qual è il tuo rapporto con il colore?
Totale. Vedo le cose che mi circondano a colpi di spatola. Mi innamoro di un colpo di luce che colpisce il viso di una persona e mentalmente cerco di ricostruirlo per poterlo tramutare in pittura. Tempo fa ho vissuto un periodo come avvenne a Picasso con i vari “periodi blu, rosa”. Avevo perso fiducia nel colore, mi ero spento. Mi ero stancato. Un po’ per saturazione e intossicazione, mi misi a fare i colori da solo, il minimo indispensabile: bianco e nero. Era bellissimo mettersi lì con i pigmenti e mescolarli con altro per raggiungere una pasta per dipingere: è come fare il pane.
L’aspetto romantico era totale, ma quello pratico significava stare mezza giornata a impastare un bianco che si sarebbe ingiallito poco dopo o iniziare a dipingere come se fossi uscito dall’allenamento in palestra. Fortuna questo periodo “desaturato” è durato poco. Grazie a un viaggio fatto nel deserto di Atacama(Chile) durante una Biennale a cui stavo partecipando (4° Bienal del in del Mundo, Valparaiso) tra 50 gradi, sabbia, sale nel naso e tanta natura, mi sono”risvegliato” ed è stata nuovamente un esplosione di colori.
Colore preferito.
Tempera o olio?
Amo tutte e due. La prima mi ricorda tutto il mio periodo da illustratore a tempo pieno. Mesi passati davanti un lavoro e spingersi a un iperrealismo maniacale. Velature su velature per ricreare una goccia di sudore su un ritratto e scambi continui tra matite, pennelli, aerografo. Un mondo molto affascinante che però mi stava troppo stretto. Poi ho scoperto la spatola e formati di lavoro decisamente meno comodi. Cambiava completamente la dinamica e quelle velature che prima affrontavo con pennelli con pelo di cammello si trasformavano in grumi di olio dati con una spatola. Meno dettagli però più diretti e decisi. In ogni caso, dovessi fare per forza una scelta: OLIO tutta la vita(e finestra aperta).
Dalle tue parole capiamo che preferisci la vita solitaria, lontano dai salotti. Come sei arrivato a questo?
Non sono mai stato uno come Jep Gambardella. Anche se mi piace stare tra la gente quando metto musica come dj, preferisco sempre mettermi da una parte e osservare, osservarmi. Inizialmente questo lo vedevo un punto a sfavore, poi ho capito che sono fatto così, e quello da osservatore lo trovo più stuzzicante come approccio.
Non ce n’è uno in particolare. Ognuno ha la sua storia, la sua maturazione. Sicuramente non potrò mai dimenticare il mio primo lungometraggio “Ahora si llego!”. Un’avventura in sidecar per tutta Cuba che mi ha segnato molto. Ho avuto l’onore di cibarmi di un sogno, che naturalmente ha avuto il suo prezzo. Ne ho poi anche tanti altri di lavori o esperienze a cui sono legato come, ad esempio, cercare un autobus per tutta l’Avana, in cui inserire una mia installazione per un’edizione della Biennale cubana.
Ti hanno definito un regista che dipinge. Che significa?
È curiosa come espressione, però è quella che mi si addice di più; perlomeno unisce le mie passioni: la pittura e la regia. Di fatto con il passare del tempo mi sono reso conto che quando lavoro faccio fatica a pensare a un quadro se poi non lo riesco a visualizzare come una storia o un video. Il “tanto per fare” mi annoia molto e questo approccio può marcare la differenza tra un pezzo e “il pezzo”. A volte parto come se le mie opere fossero dei frame, lasciando così a chi osserva delle tracce, elementi che uniscono una storia “infinita”.
Senza troppo anticipare il prossimo progetto dacci almeno qualche spunto, un tuo pensiero.
Dopo 10 anni, esattamente il 20 Maggio prossimo ripropongo con le stesse modalità un progetto che mi permise di far conoscere il mio lavoro e uscire dalla provincia. Dopo Biennali, film ed esperienze lontano dall’Italia, l’idea di tornare a casa mi piaceva molto. Quello che presenterò, oltre ad essere una mostra nel museo della mia città, è un percorso di dieci anni di lavoro, un’immersione completa tra “due Desideri “. Tra le varie cose, sarà presente “Adelante”, documentario di Andrea Rotini, che oltre ad essere un bravo regista e anche uno dei pochi autorizzati ad entrare nel mio studio!