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Dentro la Giungla di Calais | di Federico Annibale (parte 2)

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29 Mar 2016   di Federico Annibale
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«Prima che Akhatar finisca di preparare la cena, propongo ad alcuni dei volontari di andare in una di quelle baracche dove c’è musica ad alto volume e si beve. Infatti, appena il sole cala ed il buio pesto e possente scende nella giungla, da alcune catapecchie parte musica ad alto volume, s’illuminano luci colorate da discoteca, si accendono sigarette ovunque, e si beve birra a volontà» [Parte seconda]

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CALAIS. La sera, con altri volontari, spesso si va a mangiare al “ristorante” afgano, dal buon Akhatar. La baracca del suo ristorante è un luogo caldo e amichevole, e lui è sempre sorridente. Ti accoglie con una tazza di Chai Tea Latte o un semplice tè caldo. Il posto non è molto grande, ci sono dei pali di legno che sorreggono la baracca, delle lenzuola a fare da pareti colorate, il pavimento in terra ben battuta dal via vai di gente e delle tavole di legno rivestite di lenzuola sopra cui, senza scarpe, ci si siede. Di solito Akhtar prepara il chicken cry − non so se esista effettivamente, e nemmeno se si scriva così − riso con i ceci, baguette o pane fatto dal forno afgano. Non parla benissimo inglese, ma conosce quelle due espressioni che usa a ripetizione, aiutandolo a farsi capire.

Prima che Akhatar finisca di preparare la cena, propongo ad alcuni dei volontari di andare in una di quelle baracche dove c’è musica ad alto volume e si beve. Infatti, appena il sole cala e il buio pesto scende nella Giungla, da alcune catapecchie parte la musica, s’illuminano luci colorate da discoteca, si accendono sigarette ovunque, e si beve birra a volontà. Noi andiamo in uno di questi. È un locale eritreo, e la musica sparata a mille. Dentro non ci sono solo eritrei, ma anche sudanesi e qualche curdo. Le luci colorate condiscono l’ambiente, la musica lo avvolge, tutta vita, tutta vita lì dentro. Il degrado, anche se temporaneamente, era lontanissimo e potevamo stare in un qualunque bar con la musica. Anche se restavamo nella benedetta Giungla di Calais, tra risa, sghignazzi e balli.

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Seduto accanto a me ci sta Sherif, un ragazzo sudanese di 25 anni. Partito dal suo Paese qualche mese fa, è arrivato il Libia dopo pochi giorni. In quel caotico Stato del Nord Africa è rimasto per un mese, prima di riuscire a imbarcarsi su una di quelle carrette del mare che prova a raggiungere l’Italia. Ora, dopo esser risalito verso nord, eccolo qua. Gli chiedo come sta nella Giungla e lui mi risponde: «Non è un bel posto, fa schifo. Mangio solo una volta al giorno e fa molto freddo». Ci scambiamo il numero di telefono e gli dico «Ehi, mi raccomando, se riesci ad arrivare in Inghilterra chiamami, così se ne hai bisogno ti do un tetto sotto cui dormire».

Mentre parlo con l’amico sudanese, dietro al tavolo dove siamo seduti, alcuni dei volontari si mettono a ballare al ritmo della disco eritrea. Altra gente si unisce e parte la baldoria. Sherif prende un pacco di patatine, lo apre e lo mette in mezzo. E sorride, sorride sempre. Poi, al ristorante, mangiamo la cena preparata da Akhtar con estremo gusto. Io ed un’altra ragazza, mentre mangiamo, chiediamo a Samir se è vero che ci sia la prostituzione qui nella Giungla. Lui dice che non sa niente e che non ne vuole sapere di queste cose, per poi aggiungere: «Ti dico questo: quando vado a dormire, quando m’infilo nel mio sacco a pelo, non penso al sesso, penso solo a un modo per raggiungere l’Inghilterra». E così Samir ci mette completamente ko.

Accanto a noi c’è Jamil, un ragazzo afgano di circa 27 anni. Chiediamo anche a lui se pensa che ci sia la prostituzione nella Giungla. Lui sembra più convinto e ci dice che non ci sta prostituzione, che ne è sicuro. «Io proprio non potrei mai farlo. Nella mia cultura la prostituzione è vietata, e mia moglie è in Afganistan che mi aspetta». Da qui in avanti, insieme ad altre due ragazze, inizia una discussione con Jamil, sulla sua cultura e sul ruolo della donna dalle sue parti.

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Prima di tutto Jamil è un Pasthun. I Pasthun sono un gruppo etnico-linguistico che abita in prevalenza nella parte sudorientale dell’Afganistan e in alcune aree nel nord del Pakistan. Questa etnia parla una propria lingua, il Pasthu, e seguono un codice etico e di comportamento indigeno, il Pasthuwali, integrato nell’Islam. Si parla di circa 50 milioni di persone, di cui 13 solo in Afganistan. la più alta concentrazione è in Pakistan, 30 milioni. Per intenderci, l’area Pasthum è dove i talebani hanno trovato successo politico e militare, e dove è iniziata l’ascesa al potere che li ha portati a controllare quasi tutto l’Afganistan tra il 1996 ed il 2001.

Vorrei però precisare che Jamil non è l’islam e non lo rappresenta, lui ci ha parlato della sua di cultura. Dunque, se ci saranno errori da qui in avanti sulla cultura Pasthun, insomma se Jamil ci ha spiegato alcune regole che in effetti non sono menzionate nel Pasthuwali, me ne dispiaccio, ma sarà con il povero Jamil che toccherà prendersela. Io sarò fedele a quello che il nostro amico ci ha detto. Inoltre, quando abbiamo chiesto agli altri del campo, se erano d’accordo con Jamil, la maggior parte rispondeva di no. Non tutti, nella Giungla, hanno la stessa visione del nostro amico afgano.

Jamil ha una moglie e dei bambini. «Mi piace molto mia moglie, l’ho scelta bene». Eh sì, perché nella sua cultura la moglie si “seleziona”. « Io e mio padre siamo andati dalla famiglia di quella che poi sarebbe divenuta mia moglie e abbiamo chiesto al padre se potevo sposarla. Molto semplice», ci spiega lui. Noi, con molto tatto, proviamo a rispondere dal nostro punto di vista occidentale, a seconda delle nostre usanze, della nostra considerazione delle donne, e via dicendo. «Ma credi che sia giusto questo, Jamil? Il fatto che la donna non possa scegliere?», gli chiediamo noi. «Beh sì, e comunque queste sono le regole della mia cultura».

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Erano norme della sua cultura, non le aveva ideate lui; Jamil, dal canto suo, doveva attenervisi. Tuttavia non si aveva l’impressione che volesse imporre i suoi costumi, era palese che stesse descrivendo la tradizione dalle sue parti, senza volerci convincere, o cose simili.

 L’errore che tende a fare un individuo cresciuto nei cosiddetti Paesi “liberali” o “moderni”, è vedere ogni cosa solamente attraverso i propri occhi, senza provare, nemmeno per un istante, ad immedesimarsi in quel contesto culturale, etnico e religioso. Senza questa comprensione è difficile trovare quella concreta affinità che permette di avere un dialogo vero e profondo. Con questo non voglio dire che il fatto che Jamil abbia scelto sua moglie, come un qualunque individuo sceglie un cioccolatino, sia un’usanza che condivido o reputo giusta. Assolutamente no, non è questo, dico solo che il nostro amico afgano è sempre vissuto in quella realtà, dove la donna porta il burqa e non può andare al cinema. Quello è il suo mondo, la sua normalità. È inutile stupirsi ed alterarsi, o fare futili discorsi femministi ad un tizio che nemmeno sa cosa sia il femminismo. Ma non saremo certamente noi tre, in un’ora di dialogo, a fargli cambiare la sua idea sulle donne. L’idea che arrivi il buon occidentale che esporta la democrazia e l’emancipazione della donna, come chi installa un programma sul computer, è roba tanto stupida quanto deleteria.

Poi ci dice: «Comunque anch’io ho una figlia, ed anch’io deciderò il marito per lei. Da noi è così che funziona». Al che una delle volontarie gli domanda: «Ma non credi che sia giusto che tua figlia scelga l’uomo da amare?». «Love is not allowed». E di fronte a questa risposta c’è poco da dire o da controbattere, ha lanciato una bomba che distrugge ogni tipo di replica. Un’altra ragazza tenta un timido e rispettoso contrattacco: «Ma l’amore è bello! Come può non essere permesso?», così il nostro amico le risponde «Sai, ci sono diversi livelli di amore. Noi ne abbiamo altri rispetto a i vostri».

Gli chiediamo se la moglie indossa il Burqa. «Sì, lo indossa quando esce di casa. Deve farlo. Nella nostra cultura nessuno può vederla in faccia tranne me, i miei figli ed i miei fratelli minori. Chiunque vedrà mia moglie in faccia, al di fuori di questi, verrà ucciso da me stesso». Così gli domando: «Dunque se io vedessi tua moglie in faccia mi uccideresti?», e con un bel sorriso mi fa «Sì». Diretto, essenziale, sincero. All’inizio di novembre, dopo che ero già tornato da Calais, avevo letto che una donna, in Afganistan, dopo essere scappata di casa col suo amante, è stata lapidata a morte. Tutta realtà, nessuna finzione. E mi ero ricordato di un’altra cosa che Jamil ci aveva detto.

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«Nella nostra cultura, se la figlia femmina scappa di casa con un uomo che il padre non approva, egli ha la facoltà di uccidere lei e l’amante. È così che funziona», ci dice l’amico Pasthu. Allora noi per forza di cose gli rispondiamo: «Ma questo è terribile». «Dipende dai punti di vista», ci risponde. «È la nostra cultura, è una regola, e le regole vanno seguite. Ma comunque negli ultimi 50 anni nella mia area è successo solo 5 volte, di cui l’ultima circa 10 anni fa».

Nella Giunglasi parla con gente diversa, con persone che hanno storie e realtà così eterogenee tra di loro, e fantasticamente lontane dalle tue. È un posto dove l’Europa ha sì rinunciato alla civiltà, alla dignità, ai diritti; ma allo stesso tempo è un luogo dove ascoltare, ubriacarsi di quell’incredibile multiculturalismo che la caratterizza, e comprendere la cultura del diverso. Un diverso da conoscere, da rispettare e ascoltare. Nella Giungla costruisci un bagaglio conoscitivo di costumi differenti, e rispettosamente ascolti usi di altri fratelli.

Del brutto della Giungla si sa, i giornali ne sono pieni ed è tutto vero. Quello che si sa di meno, o meglio che non si pensa, è che comunque lì vivono esseri umani, e che loro, rispettosamente, nel loro dramma, si sono costruiti una vita, una routine, proprio come una qualunque tedesco, francese o italiano. Molti che vivono lì al campo erano stufi dei giornalisti che raccontavano solo il dramma, che volevano sentirsi raccontare solo storie dolorose e tristi, e così ripercorrere le tragedie, la morte di un fratello, l’annegamento d’un cugino. Molti volevano parlare del più e del meno, di quelle frivolezze che li fanno sentire normali e ancora vivi. Io ho provato a fare questo, dovevo sentirmi loro fratello, ascoltare. E parlare del calcio, del clima, di cosa gli piace da mangiare, di sesso, di donne, d’amore.

Quello che volevo da loro, era un momento di antenticità, d’amicizia. Non solo una storia da raccontare.

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