Il Duca Bianco lascia sgomento il mondo della musica contemporanea, che pare tremare tutto di fronte al suo addio. Viene a mancare infatti il tassello più importante che definì da solo i canoni del vero artista moderno. Ma la sua morte è un chiaro messaggio: quello di darsi da fare per andare davvero avanti, e smetterla di frignare sui fasti di un passato che spesso nemmeno ci appartiene
Chiamatelo Ziggy Stardust, Halloween Jack, Aladdin Sane, il Duca Bianco, l’Uomo caduto sulla Terra, Jareth il Re dei Goblin. Chiamatelo veramente come vi pare. David Bowie è stato tutto ciò, è andato oltre ciò, per poi tornare in sé stesso. Non è un caso che i suoi ultimi anni siano stati contraddistinti dall’abbandono sistematico di qualsiasi travestimento, nei quali nessuno capì mai veramente bene dove finisse l’artista e iniziasse la maschera.
La morte di David Bowie avviene due giorni dopo la pubblicazione di Blackstar, di cui Lazarus diventa un intenzionale epitaffio. Bowie esce di scena platealmente, come ha sempre fatto, proprio due giorni dopo il suo sessantanovesimo compleanno. Così come un paio di settimane e spicci fa moriva, sempre due giorni dopo il suo compleanno, il frontman dei Motörhead Lemmy Kilmister. Ma non siamo qui per fare l’ennesimo, lagnosissimo e inutile panegirico di queste glorie, come se le webzine di mezzo mondo non avessero già martoriato le palle in mezzo alla smania a tratti necrofila di celebrazione dei defunti.
Guardando semplicemente in faccia la realtà, dal lontano 1980 è successo con John Lennon, poi con Freddie Mercury, Kurt Cobain, Ella Fitzgerald, Layne Staley, Joe Strummer, Barry White, Johnny Cash, Ray Charles, Rick Wright, Whitney Houston, Michael Jackson, Lou Reed, BB King e altre svariate migliaia. Oggi è successo con Bowie. Succederà, presto o tardi, con altrettante migliaia, e mi risparmio l’elenco. Come mi risparmio volentieri la lista di frasi più fatte e scontate che ne accompagnano gli addii, specialmente quelle piangenti la miseria in cui versa la musica di oggi, sull’assenza più totale di persone di quello spessore artistico che oggi “ci sogniamo”.
Ma questo piagnisteo ha davvero ragion d’esistere sulla base di un discorso di mero spessore artistico? Quello che si vuole dire, è che tutti questi artisti sono prodotti di una certa società, così vicina alla nostra eppure estremamente differente nelle sue dinamiche e peculiarità. Dal Dopoguerra e durante buona parte della Guerra Fredda la società occidentale (e quindi, quella più influente nella sfera globale) ha conosciuto dei mutamenti sconvolgenti, primo tra tutti l’accrescimento considerevole del livello di benessere del ceto medio, fascia diventata maggioritaria nella popolazione mondiale, latrice di un certo tipo di costumi, gusti e ideali. E sicuramente meno avvezza al consumismo e all’usa e getta come lo sono le generazioni più giovani, ma rimanendo comunque base del nuovo assetto sociale.
In poche parole, tutti gli artisti, i “padri fondatori” della musica rock e pop, furono l’emblema di quel terremoto di stravaganza che con spirito neoromantico gli ormai quasi nonni raccontano, ricordando quei mastodontici “vaffa” ai costumi dell’anteguerra. Terremoto rivoluzionario che grazie a queste stesse figure non faticò a trovare spazio in un mercato generale ancora vergine e avido di novità. Da lì, si cominciò a scrivere un nuovo capitolo di sperimentazione per l’arte, e anche per la musica, a partire dai Beatles fino agli scalmanati Rolling Stones, a Woodstock e Jimi Hendrix, ai Led Zeppelin, alla disco music, e a tantissimi altri. E, ovviamente, a David Bowie. Fu una vera e propria rivoluzione sociale venuta dal basso, poi coadiuvata dall’alto, che ridefinì gli standard culturali di milioni, se non miliardi, di persone. Un evento mai visto prima.
Proprio qui è il problema. Può sembrare banale e scontato, ma da che mondo è mondo, il sistema rivoluzionario di ieri diventa il nuovo sistema difensore dello status quo di oggi. E credere nelle rivoluzioni dall’alto equivale a credere a Babbo Natale. Ciò che fino a qualche decennio fa poteva sembrare strano, destabilizzante, addirittura “pericoloso”, viene assorbito nelle varie mode, e gli “stravaganti” (tipo Bowie?) di qualche tempo fa oggigiorno non farebbero più notizia e non rimarrebbero impressi nell’immaginario collettivo. Citando qualche esempio nostrano, Domenico Modugno e Mina ai tempi del Festival di Sanremo venivano definiti interpreti “osceni” per via del loro modo di dimenarsi sul palco, oggi sono “semplicemente” autori fondamentali della musica leggera italiana. Oppure Madonna: oggi Suor Cristina canta Like a Virgin, e Miley Cyrus strappa più di qualche sorriso ma nulla più, riuscendo però (sebbene a tavolino) a spazzar via dalla scena un fenomeno molto più interessante e di spessore come Lady Gaga.
Ma non solo. Alcuni coraggiosi asseriscono il contrario, ma la diffusione della musica digitale in Mp3 fu un evento non da poco, che contribuì in maniera drastica a contrarre drammaticamente il mercato discografico, e di conseguenza i budget per gli investimenti, fino ad avere un obiettivo impoverimento qualitativo dell’offerta di cui soffre la musica oggi. La piazza delle grandi produzioni e distribuzioni è sostanzialmente divisa in due parti: da una ci sono i prodotti creati, cesellati e levigati su misura per un consumo ampio, alcuni di qualità, altri piuttosto plasticosi e fin troppo spesso incastrati in un filone revival piuttosto sterile, ma che comunque non durano mai molto; dall’altra il catalogo delle vecchie glorie in mano alle major che le producevano, che basta una riedizione rimasterizzata di qualche greatest hits o di qualche inedito scovato – cough cough – a caso o, ahimé, una scomparsa di qualcuno per ritornare in testa alla classifica. Non ci sarà da stupirsi se Blackstar, Heroes, Low o Space Oddity ne torneranno e resteranno in cima per un po’. Tutto questo per garantire alla casa discografica degli introiti sicuri per mantenerne l’apparato ormai gigante.
Nella terza parte rientra un esercito di artisti con cui quasi mai una grande casa discografica si accollerebbe il rischio di un investimento in perdita, cui accanto convivono delle schegge impazzite che dandosi al circuito indipendente continuano a sperimentare e mantenere un gran successo, le quali molto spesso possono concedersi il lusso di farlo. Bowie stesso con il suo Earthling uscito nel ’96 ne è un esempio, come lo sono i Radiohead, forse unico gruppo che, in un panorama così conservatore e che snobba qualsiasi innovatività venuta dal basso, sta ancora cercando qualcuno che raccolga il testimone della musica definibile pop/rock in senso stretto.
Ma continuare a dire che non esistono più artisti del calibro di quelli ormai passati è, e continuerà ad essere, una fesseria enorme. Gente come Bowie è vero, non capita (per fortuna) tutti i giorni, ma ha anche poco senso accettare con acriticità (e soprattutto snobismo) che ci sia stata un’età dell’oro di cui ci stiamo cibando dei suoi scarti. Quello che è cambiato è lo show business, che non è più a misura d’uomo da un pezzo. La produzione in massa favorisce la volatilità del successo (negli anni ’60-‘70 una qualsiasi hit durava mesi nelle radio), e la liquefazione della circolazione di musica digitale difficilmente manterranno stabili degli idoli di riferimento come in passato. Come se non bastasse, se da prima il rock è riuscito, da genere per reietti quale fu, a diventare una forma di musica “pop”, la stessa sorte è toccata al rap e all’hip hop. In molti dicono che Eminem sia stato la più grande rockstar degli anni 2000, seguito da Kanye West e Jay-Z.
Sebbene la cornice sia marcia, snobbare – come molti fanno – la musica di adesso non porta a nulla. E se il mercato sembra fare tutto per togliere valore agli artisti, non vuol dire che gli artisti che escono ne siano privi. Per favore, non continuiamo a guardarci in lacrime le spalle, prima che dietro di noi non sia rimasto nulla. David Bowie sarebbe il primo a non volerlo.