Lab 2.0 Magazine | Tra il racconto del IV – CIAM del ‘33 e la proposta immaginaria di un nuovo congresso mediterraneo per le nostre città
— di Mirco Santi
Il 29 Luglio 1933, il IV CIAM (Congresso Internazionale di Architettura Moderna) prese il via a Marsiglia a bordo del piroscafo Patris II, proseguì sulle acque del Mediterraneo, sostò per qualche giorno in Grecia e infine terminò,il 13 Agosto, nuovamente a Marsiglia. Un congresso a tratti informale, mobile, “fluttuante”, a cui parteciparono i rappresentanti di ben 15 paesi, per un totale di un centinaio di passeggeri tra architetti aderenti ai CIAM, consorti e amici (tra loro pittori come Fernand Leger e Laszo Moholy Nagy, scrittori come Sigfried Giedion, musicisti e poeti come Gaston Bonheur). Ogni paese partecipante aveva la sua delegazione, tra cui gli spagnoli Bonet Castellana e Josep Lluis Sert, il finlandese Alvar Aalto, l’ olandese Cornelis van Eesteren, gli italiani Giuseppe Terragni, Pietro Maria Bardi, Piero Bottoni e Gino Pollini e il francese d’adozione Le Corbusier che scriverà poi di «una folla di giovani, il fiore della nuova architettura che dovrà portare i suoi frutti».
Dopo le riflessioni pubblicate in merito ai piroscafi nel celebre Verse une architecture, la crociera diventa così il set ideale per pensare alla città del futuro e proseguire il lavoro dei CIAM (attivi dal 1928 al 1959), nati dal bisogno di promuovere un’ architettura e un’ urbanistica funzionali, dopo l’esperienza del Weissenhof. Ricorda Le Corbusier: «una nave da crociera si era trasformata in sale per riunioni, per commissioni, per il lavoro organizzativo. Un solo rumore: lo sciabordio dell’acqua sullo scafo; una sola atmosfera: di giovinezza, di fede, di modestia e coscienza professionale».
Interessante è capire perché il IV CIAM, che affrontò temi rilevanti e in fermento quali l’abitare, il lavorare, il ricrearsi, la circolazione e il patrimonio storico al fine di determinare i caratteri delle nuove città, si sia svolto a bordo di una nave. E perché proprio sulle acque del Mediterraneo? Anche la scelta del soggiorno ad Atene è significativa e lascia ipotizzare che gli architetti dell’ epoca abbiano sentito l’importanza del compito a cui stavano lavorando e l’ esigenza della città contemporanea di ripartire dalla classicità. Una classicità alla quale essi sentono di appartenere nonostante che in seguito, nel capitolo sul patrimonio storico della Carta di Atene, essi esplicitino che non è loro intenzione «trasferire alle loro opere i principi creativi di altre epoche e le strutture sociali del passato».
Il viaggio, emblematico in sé, permise di lavorare all’aria aperta, sui ponti assolati, con il mare tutt’intorno, tanto che alcuni scrissero poi che era intenzione dei partecipanti allontanarsi da tutto, dalle varie realtà nazionali diversamente travagliate in quegli anni e da un clima europeo che minacciava di non essere pronto ad accogliere le loro proposte. Tuttavia il segretario generale dei CIAM Giedion dichiarò fin dall’inizio: «se noi viaggiamo ora verso la Grecia, ciò non significa un’evasione; noi non desideriamo in nessun modo sfuggire alle difficoltà della realtà, ma sempre attenti ai problemi profondi che si sviluppano, vogliamo intercalare un momento di riflessione». Altri sostennero che tale scelta era la conferma dell’ipotesi che alle radici dell’architettura del Movimento Moderno, innegabilmente legato ai volumi bianchi, geometrici e dal tetto piano, ci siano proprio le forme semplici e tradizionali che caratterizzano la maggior parte delle coste bagnate dal Mediterraneo. Altra ragione, decisamente più pratica, è il ritardo e l’indecisione sui temi da affrontare degli organizzatori russi del IV Congresso che doveva inizialmente svolgersi a Mosca, tanto che fece prendere la decisione di cambiarne sede.
I frutti del Congresso, riassunti nella Carta di Atene, vennero pubblicati solamente nel 1942 da Le Corbusier, dopo aver pesantemente rimaneggiato il documento, che dopo numerosi ripensamenti era stato infine sottoscritto da tutti i partecipanti. La Carta di Atene, che già dal nome si propose come un forte manifesto con la volontà di diffondere norme e principi da seguire, divenne un documento molto studiato e conosciuto che proponeva l’esaltazione del sole, degli spazi verdi, dell’igiene, la condanna della strada, della periferia, dell’ allineamento delle abitazioni lungo le vie di comunicazione, delle aree insalubri da demolire e sostituire con parchi. Ma soprattutto, essendo rivolta perlopiù a coloro che amministravano la città, diede le basi allo strumento urbanistico denominato poi Zoning. La necessità della ricostruzione, la diffusione dell’automobile, la crescita di interessi privati, l’aumento pressante di popolazione e la necessità di organizzare e dare un ordine razionale e rigido alle nuove funzioni che l’urbanizzazione richiedeva portarono negli anni, in Italia a partire dal regio Decreto del 1942 (ancora vigente), alla stesura dei PRG di tutte le città. Materializzazione con il passare del tempo sfruttata e trasfigurata di ciò che doveva essere «la città futura, radiosa e funzionale».
Da anni è ormai evidente, e sotto diversi aspetti consolidato, il fatto che lo Zoning è anacronistico e superato. Le mutate esigenze, i rapporti sociali e le dinamiche economiche non possono continuare ad essere racchiuse in “zone funzionali omogenee” confinate, delimitate e prestabilite. L’urbanistica contemporanea propone nuovi strumenti di pianificazione programmatica, partecipata e perequativa che introducano la tutela dell’ambiente, del suolo e del costruito storico. Va inoltre recepita la direttiva europea per raggiungere l’obiettivo di zero consumo di suolo entro il 2050. Consumo di suolo zero non significa smettere di costruire ma concentrarsi sull’esistente, sul recupero e la riqualificazione. Significa ripensare alla cultura dell’abitare, lavorare, ricrearsi e circolare in città. Si tratta oggi di puntare alla qualità urbana piuttosto che ad un’ espansione immobiliare quantitativa voluta dalla speculazione. La città può rigenerarsi dall’interno, a partire da se stessa, come scrisse George Simmel, «la città nuova è una forma uscita dalla sua stessa forma».
Ma come far sì che finalmente in tutta Italia il quadro normativo faccia proprie queste tematiche e proposte per riqualificare e aggiornare le nostre città? Provocatoriamente è interessante immaginare oggi che un nuovo Congresso Internazionale si svolga a bordo di un battello sulle acque del Mediterraneo per riflettere sugli errori e i punti di forza delle città passate e delineare scenari per le città future. Sarebbe curioso vedere chi tra gli architetti di fama mondiale accetterebbe la sfida di apportare il suo contributo, e lo sarebbe altrettanto vedere il seguito che inviterebbe a bordo. Sarebbero ancora consorti, musicisti, pittori, poeti e scrittori? Chissà se il paesaggio del Mediterraneo sarebbe in grado di produrre una nuova Carta al passo con i tempi dopo circa 90 anni in cui la cultura, la società e le città si sono profondamente complessificate e modificate. Chissà se tra i rappresentanti a bordo si creerà, oltre ai necessari, costruttivi e accesi dibattiti, la stessa atmosfera che l’architetto Gino Pollini descrisse così: «sui ponti, riparati da tende, in un’ atmosfera ventilata, piena di sole e di luce, sul mare calmo, la vita in comune dei partecipanti nel corso dell’intera giornata favoriva i contatti personali, il formarsi delle amicizie, lo scambio delle informazioni, le discussioni in gruppi ristretti, che ai Congressi precedenti erano in parte mancati».