A quarant’anni dalla morte dell’artista e intellettuale italiano più importante dal Dopoguerra, si sprecano le iniziative in sua memoria. La sua eredità rimane tuttavia vaga, conseguenza questa di uno sfruttamento frammentario e fazioso della sua figura, a scapito di un’educazione seria alle sue opere
Quando un anniversario mediamente importante raggiunge una cifra tonda, si suole celebrare l’evento con maggiore enfasi. Quando l’anniversario segnala gli anni trascorsi dalla scomparsa di qualcuno, è d’obbligo assumere un atteggiamento ossequioso nei confronti del defunto – specialmente se il tema della sua morte lega a sé quelli della politica e dell’intolleranza. Quando tale avvenimento riguarda Pasolini, tuttavia, le cose si complicano. Vuoi perché la sua poliedricità ogni volta genera un carosello di eventi di rare dimensioni (per l’anniversario di ieri si contano centinaia di iniziative tra letture a teatro, proiezioni e incontri, maratone bibliotecarie nonché un torneo di calcetto al quartiere romano di Pietralata) vuoi perché, anche per questo motivo, Pasolini rimane oggetto delle più disparate interpretazioni e strumentalizzazioni.
Come è noto, ognuno si è ritagliato l’immagine che voleva di questo personaggio. Emergono gli ammiratori, i fedelissimi, gli ultras del poeta/regista/romanziere/saggista, che si schierano contro i detrattori – non necessariamente di destra – che mal sopportano forse non tanto le idee politiche espresse, e oggi meno di ieri il suo orientamento sessuale (deo gratia!), ma l’incapacità di inquadrarlo. Da una parte persone che lo venerano e che ben recitano la loro parte in questo appena trascorso 2 novembre 2015, e altri che fanno spallucce anche alla notizia del restauro di un film (Salò o le centoventi giornate di Sodoma) che al decoro democristiano – nonché alla volgarità del potere – e a quella deprimente porzione di storia narrata ha dato uno schiaffo del cui eco sentiamo ancora l’effetto. Entrambe le fazioni, tuttavia, trovano nella fine tremenda dello scrittore – riservata da un caso che pare sempre più insolitamente ben organizzato – il terreno comune da cui far partire ogni discussione.
Pasolini ci piace, Pasolini non ci piace, Pasolini va bene “ma in Il PCI ai giovani disse cose tremende ed era palesemente impazzito”. Non si sa bene cosa dire, da che parte stare, e prima di approcciarci alle sue opere sembra sempre doveroso schierarsi con quella critica che non scinde l’autore dalla sua creazione. Esattamente qui si inserisce un paradosso: si parla con insistenza della sua vita, a prescindere dal fatto che ci sia una totale assenza di informazioni riguardo alla sua bibliografia/filmografia o, al contrario, una conoscenza capillare di ogni verso e di ogni sequenza. Per intenderci, molti conoscono a memoria almeno i primi tre versi de L’infinito leopardiano, e sanno che quelle parole appartengono al recanatese, mentre con Pasolini spesso e volentieri risulta difficile anche il collegamento con Mamma Roma.
Eppure, come accennato sopra, dire che a Pasolini non siano dedicate numerose iniziative culturali sarebbe un grave errore, da veri esperti dell’arte del lamentum. Per esempio, l’anno scorso al Palazzo delle Esposizioni di Roma fu allestita una mostra interessante in suo onore, che per mezzo del materiale radunato (lettere, articoli di giornale, spezzoni di interviste ecc.) riusciva a tracciare un percorso ideologico che bene illustrava la genesi delle sue opere. E ancora, in alcune sale cinematografiche (certo non quelle appartenenti al circuito UCI Cinemas, eccetto rare occasioni) proiettano tutt’oggi film come Accattone, Uccellacci e uccellini, Il Vangelo secondo Matteo e le collaborazioni con altri registi come Ro.Go.Pa.G..
L’interesse che suscita Pasolini è fuori discussione. A preoccupare è altro: l’assenza di una buona conoscenza delle sue opere, o per lo meno la parvenza di una conoscenza prettamente scolastica. La conoscenza di Pasolini, per assurdo, è in certi casi figlia di Internet e non della scuola. È curioso notare come un autore di questo spessore stenti a rientrare nella didattica delle scuole superiori. Ma qui è il caso di estendere la questione a tutta la produzione letteraria del ‘900, la quale, come già scriveva Salvatore Guglielmino negli anni ’70 «non si può pensare di risolverla [l’esigenza di conoscenza] relegando ancora questo studio alla congestionata conclusione dell’ultimo anno di scuola media superiore».