Per la prima volta in Europa, un Tribunale ha riconosciuto il carattere discriminatorio del “campo nomadi” La Barbuta. È successo a Roma grazie all’iniziativa dell’Associazione 21 luglio e dell’ASGI. Un fortissimo precedente che però ora deve tramutarsi in azione politica
Nell’Italia di oggi, quando si parla di rom, ci sono due tipi di ruspe. Una è quella più volte invocata da Salvini. L’altra è quella messa in atto dal Tribunale civile di Roma, che con un’ordinanza dello scorso 30 maggio ha riconosciuto il carattere discriminatorio di un “campo nomadi”. È la prima volta in Europa che avviene un simile riconoscimento, il che basta a renderla letteralmente una sentenza storica nonché un fortissimo precedente dal punto di vista giurisdizionale. Per l’occasione si è svolta due giorni fa una conferenza stampa al Senato in cui si è parlato della sentenza e dei possibili scenari futuri.
Prima di procedere è bene chiarire una cosa: non c’è solo il segretario della Lega a voler chiudere i campi. Per troppo tempo la questione è stata schiacciata (e banalizzata) entro un dibattito destra vs. sinistra, contrari vs. favorevoli. In realtà anche molti “buonisti” vogliono lo stesso, pure se con modalità differenti e senza finire per questo tutti i giorni in televisione. I campi costano e non risolvono né i disagi di chi ci vive né tanto meno quelli di chi paga le tasse per mantenere un sistema segregante che non porta da nessuna parte. Per questo motivo la sentenza, se letta superficialmente, potrebbe paradossalmente offrire un assist a Salvini e ai suoi elettori.
Il passo ancora più decisivo sarà quindi il post-sentenza, perché è esattamente su questo punto che i salviniani prendono una strada differente. Lavorare sull’inserimento sociale e abitativo di queste persone significa spendere quegli stessi soldi per trovare delle alternative efficaci e a lungo periodo. Se fosse per la Lega, probabilmente, a simili progetti non dovrebbe andare neanche un centesimo, in virtù di quel “prima” gli italiani che è diventato sempre più un “solo”. Il che contribuirebbe a lasciare le cose esattamente come sono, magari incentivando la formazione di campi abusivi (da qualche parte dovranno pur vivere) e continuando a prendersela con l’intera comunità ogni volta che se ne presenti occasione (racimolando ulteriori voti). Insomma, un circolo vizioso senza fine.
Ma torniamo alla sentenza e procediamo con ordine. Tutto è iniziato esattamente tre anni fa, nel 2012, quando l’Associazione 21 luglio (che si occupa di promozione dei diritti di rom e sinti) e l’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) hanno intrapreso un’azione legale contro il Comune di Roma. Il motivo era la realizzazione del “villaggio attrezzato” La Barbuta, voluto dalla stessa Amministrazione capitolina e destinato esclusivamente alla comunità rom. Ed è proprio in virtù di quell’ “esclusivamente” che il Tribunale di Roma ha accolto la richiesta delle due organizzazioni, dopo un iniziale reclamo del Comune.
Un vero e proprio spartiacque, come lo ha definito il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla. Ora non si può più fare finta di nulla: vanno trovate alternative, e in fretta. «Da oggi — ha dichiarato Stasolla — deve porsi fine all’immobilismo che ha caratterizzato sino ad ora l’Amministrazione capitolina. In assenza di una repentina azione ci riserviamo ulteriori interventi per dare effetto immediato alla sentenza». Dal Comune, per ora, non è giunta alcuna risposta né ricorso, anche se l’Associazione ha dichiarato che presto si metteranno in contatto per stabilire strategie comuni.
Come hanno fatto gli avvocati dell’ASGI a “spuntarla”? Riassumendo ciò che è stato detto alla conferenza, principalmente grazie a tre rivendicazioni.
• Diritto antidiscriminatorio, scarsamente applicato e conosciuto nel nostro Paese. Questo prevede che non si possano riservare trattamenti differenziati su base etnica, se non in un’accezione positiva.
• Il venir meno della questione dell’emergenza, nata nel 2008 con il governo Berlusconi e perpetrata dai vari Piani Nomadi a livello comunale. Questo perché le politiche in questione sono ormai permanenti e non temporanee. Per non parlare del fatto che l’istituzione dei campi ha radici ben più lontane.
• Nessuna tutela dei destinatari, dal momento che relegarli in luoghi simili non è certo un’iniziativa finalizzata al loro benessere e alla loro integrazione.
La sentenza, dal punto di vista giurisdizionale, rappresenta quindi un importante precedente. Potrebbe generare una catena di ricorsi verso la strada per il superamento del sistema campi (perché chiamarli “villaggi attrezzati” o peggio ancora “della solidarietà” non muta la loro essenza). Al tempo stesso, però, potrebbero aprirsi contenziosi infiniti con il Comune, con altrettanto infiniti costi da parte loro. Costi che potrebbero essere destinati altrove, vista la quantità di denaro che è stata spesa nel 2014 per la sorveglianza degli abitanti dei campi e quella (pari a zero) per il loro inserimento nella società.
Per questo motivo, dopo l’azione legale, il prossimo passo dovrà essere politico. E a dirlo è lo stesso Salvatore Fachile, avvocato e segretario dell’ASGI. Lasciare il tutto sul piano giudiziario, infatti, «non è quello che vogliamo noi. Se la politica non saprà reagire in maniera forte trovando una soluzione, lascerà esclusivamente ai tecnici dell’ufficio legale del Comune la decisione di come portare avanti la questione, che giustamente non hanno una volontà politica e fanno il loro lavoro. In questo modo si passerebbe dal piano della trattativa a quello giudiziario: loro faranno appello, noi gli rifaremo appello, e andremo avanti così con altre venti cause senza arrivare a nulla».
Quali potrebbero essere dunque le alternative? «La dicotomia classica per cui si dice “o campo o case popolari” è una retorica infondata, perché lo stesso Senato ha fatto un’analisi assolutamente particolareggiata di tutte le soluzioni che sono state trovate in alternativa. Si dice, in sostanza, che con lo stesso quantitativo di spesa puoi dare sostegno agli affitti, sostegno all’auto-ricostruzione di edifici pubblici abbandonati (di cui Roma è piena), puoi dare la possibilità di gestire dei piccolissimi spazi roulotte. In città come Bologna, Modena e Messina sono state trovate soluzioni intelligentissime. L’importante è non metterli tutti in uno stesso quartiere, altrimenti è normale che si creino processi di ghettizzazione e autoghettizzazione. Siamo solo noi ad aver inventato questa soluzione del campo fuori e lontano dalla città».
Soluzioni che, a prescindere da come la si pensi, andrebbero quantomeno provate. Soprattutto alla luce del completo fallimento del sistema campi e delle recenti inchieste di Mafia Capitale. Anche perché i progetti della cupola nera nei confronti di quel “villaggio” erano stati denunciati dall’Associazione 21 luglio già un anno fa, quando era stato presentato un progetto di abbattimento e ricostruzione de La Barbuta ad opera della multinazionale Leroy Merlin Italia, della Comunità Capodarco di Roma e della ditta Stradaioli. Un progetto che aveva ingolosito niente di meno che Salvatore Buzzi, come emerge dalle ultime intercettazioni. Guarda caso.