Dopo un trentennio, esiste una traduzione italiana dell’opera fondamentale dell’intellettuale e scrittore kenyota, che negli anni ’80 osservava come la lingua inglese opprimesse la libertà d’espressione e la letteratura africane. Un cardine del colonialismo, contro il quale ha scelto di opporsi scrivendo in gikuyu, suo idioma d’origine
— di Cecilia Draicchio
«Quando noi, intellettuali neri, borghesia nera, abbiamo avuto il potere, non abbiamo mai provato a portare avanti quelle politiche che sarebbero state in armonia con i bisogni dei contadini e dei lavoratori. Credo sia arrivato il momento anche per gli scrittori africani di cominciare a parlare nei termini di questi lavoratori e contadini». Era il 1969 quando Ngũgĩ wa Thiong’o, (che a seguire scriveremo Ngugi wa Thiong’o) scrittore e intellettuale kenyota di fama internazionale nato appena 31 anni prima, scriveva queste parole. Ma qual è il loro valore a quasi cinquant’anni di distanza?
La presentazione del libro Decolonizzare la mente di Ngugi wa Thiong’o (Jaca Book 2015, traduzione italiana a cura di Maria Teresa Carbone), organizzata a Roma dalla Libreria Griot lo scorso 20 maggio presso l’Auditorium dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi, è stata un’ottima occasione per tentare di rispondere a questa domanda, alla presenza dell’autore oggi 77enne, della traduttrice e di ospiti come Goffredo Fofi e Sandro Triulzi. Anche i quattro saggi che compongono il volume appena pubblicato, infatti, risalgono ad un tempo piuttosto lontano. Decolonising the Mind, che arriva per la prima volta in Italia dopo quasi 30 anni, uscì nel 1986 e raccolse i discorsi pronunciati da Ngugi nel corso di un ciclo di conferenze tenutesi presso l’Università di Auckland nel 1984, sulla base di una serie di riflessioni che l’autore aveva iniziato a sviluppare già a partire dagli anni ’60.
Il nodo centrale è il ruolo politico della lingua nella letteratura africana. «Noi scrittori africani – scrive Ngugi wa Thiong’o – abbiamo sempre denunciato il rapporto economico e politico di stampo coloniale che il continente ha con l’Europa e gli Stati Uniti. D’accordo. Ma continuando a scrivere nelle lingue straniere, a render loro omaggio, non manteniamo sul piano culturale quello spirito neocoloniale strisciante e servile?». Il fatto che molti scrittori africani si definissero con etichette di derivazione coloniale (anglofoni, francofoni, lusofoni) e che considerassero quasi scontato il ricorso a quelle lingue imposte con la forza – tra l’altro, solo qualche decennio prima – per Ngugi rappresentava un problema.
Il ruolo dell’istruzione in inglese (obbligatoria in Kenya dal 1952) non era stato marginale nell’esercizio del potere coloniale, ma al contrario, sottolinea lo scrittore nel suo primo saggio, era stato centrale per far sì che il potere dei dominatori si infiltrasse in profondità nella vita quotidiana dei giovani africani. I bambini che parlavano gikuyu a scuola venivano sottoposti punizioni corporali o umiliazioni ed erano i compagni stessi che avevano il compito di denunciarli. Il merito, e di conseguenza la possibilità di accedere alle scuole più prestigiose e poi alle università, era misurato principalmente in base alla conoscenza dell’inglese, una sorta di bacchetta magica che permetteva ai ragazzi di entrare a pieno titolo nell’élite borghese.
Quello della lingua, secondo Ngugi wa Thiong’o, è stato un potere pervasivo che ha permesso al dominio coloniale di promuovere la segregazione razziale e la nuova struttura piramidale della società, ma soprattutto una nuova percezione di sé degli africani, funzionale al pieno controllo delle ricchezze nelle colonie. Controllare la lingua voleva dire controllare la cultura di un popolo e «controllare la cultura di un popolo – sostiene lo scrittore – equivale a controllare i suoi strumenti di autodefinzione in rapporto agli altri». Nonché, in ultima analisi, la sua produttività.
Dinanzi alla descrizione di un potere coloniale (e neocoloniale) così pervasivo e totalizzante, si potrebbe obiettare che le soggettività africane, la loro capacità di agire nel mondo, di negoziare significati, di resistere al controllo, sembrano rimanere in secondo piano. Ma in realtà anche questo secondo aspetto è presente nella riflessione di Ngugi wa Thiong’o e nella sua stessa biografia. Mettendo in pratica le sue teorie, nel 1977 – anno in cui fu pubblicato Petals of Blood, uno dei suoi romanzi più amati – l’autore prese la decisione di scrivere in gikuyu, la sua lingua madre. Quello stesso anno, dopo la pubblicazione della pièce teatrale Ngaahika Ndeenda (I will marry when I want), in cui criticava fortemente il potere kenyota, fu arrestato e costretto a rimanere in prigione per un anno.
Nella fusione di teoria e prassi, che la biografia di questo grande scrittore testimonia, è dunque racchiusa la profonda attualità di un’opera come Decolonizzare la mente e della frase citata all’inizio di questo articolo, in cui Ngugi wa Thiong’o rivendica per gli intellettuali africani un forte ruolo politico, che vada al di là della loro appartenenza ad una élite economica e culturale. È ancora possibile oggi, nell’epoca pienamente post-coloniale e neoliberista della globalizzazione, rivendicare questo ruolo? Il dibattito è aperto.