La città sta passando uno dei suoi momenti peggiori. È il momento di rimboccarsi le maniche. E di un maggiore impegno per la trasparenza dell’amministrazione davanti ai cittadini. Il think tank Cultura Democratica ha presentato una proposta per controllare l’attività di gruppi d’interesse e politici. Ecco di che si tratta
A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Una frase andreottiana entrata nella storia, che ha assunto la statura di un proverbio popolare. Quelli che sono sempre veri, perché sempre trovano conferma nella quotidianità. E la classe dirigente italiana, tra lobbisti, tangenti e scandali, non si è mai smentita. Sarà per questo che oggi non abbiamo più a che fare soltanto con un proverbio, ma con una consolidata pratica di indagine, caccia o sputtanamento (fino a sfociare nel complottismo), che ha trovato nel web la sua valvola di sfogo provilegiata. Che tra gli stessi politici alcuni hanno saputo cogliere più o meno strumentalmente. Pensare o parlare male, insomma, è pane quotidiano per milioni di italiani. E su molti argomenti.
Uno di questi è senz’altro l’esistenza delle lobby, che sono sotto gli occhi di tutti parte integrante dei processi decisionali. Tanto da rientrarvi esplicitamente nei Paesi anglosassoni e nella stessa Unione Europea, in base a leggi chiare. Ma non in Italia. Nel bene e nel male le lobby esistono come nel resto del mondo, con la differenza che agiscono indisturbate. Così, anche nel caso di Ong che rappresentano gruppi di pressione sulle istituzioni per politiche migliori in materia sociale o ambientale, il vecchio proverbio è valido. Non è un caso che il termine “lobby” sia entrato nel lessico comune con un’accezione negativa, che talvolta arriva ad assumere connotati esotici – per non dire esoterici – e occulti. Lasciando da parte utopie e complottismi vari, se impedire che le lobby agiscano non è possibile, il problema sono le regole.
Secondo un rapporto di Unitelma Sapienza, citato da repubblica.it, soltanto il 20% dell’attività di lobbying è riconducibile ad attori come grandi aziende e società di consulenza che si fanno portatrici dei loro interessi presso le sedi istituzionali. Il restante 80% è nell’ombra. Non sappiamo chi ne tesse le fila né come si relaziona con i politici, ad esempio. L’unico e approssimativo spaccato delle lobby italiane ci è offerto dal Registro per la trasparenza dell’Unione Europea, da cui possiamo evincerne a grandi linee categorie e settori d’interesse risalenti al 2014. Il 23%, la porzione maggiore, è composta proprio da Ong, contro il 76% di imprese. Oltre 350 soggetti operano in campo ambientale, che raggiunge il primo posto della classifica, seguito al secondo e al terzo rispettivamente dagli interessi delle imprese e dalla ricerca. Un mondo ampio e variegato, che senza i dovuti controlli può favorire il malaffare e mettere in discussione l’effettiva democraticità dei processi decisionali.
Nella storia della Repubblica sono ben 58 i disegni di legge presentati sulla regolamentazione delle lobby. Tutti finiti nel dimenticatoio. E solo di recente la Commissione Affari Costituzionali sta esaminando sei proposte diverse per arrivare a una sintesi condivisa. Una questione di trasparenza troppo a lungo rimandata e divenuta ormai dirimente, che rischia nuovi ritardi. In questo caso, a fare la differenza bruciando sul tempo il lento iter parlamentare potrebbero essere gli enti locali. È questa la sfida lanciata da Cultura Democratica, think tank di giovani che promuove l’innovazione legislativa e le politiche di buon governo, per contribuire alla formazione della classe dirigente del futuro. Mettendo in circolo competenze, saperi e persone provenienti da tutta Italia, dopo aver organizzato workshop e seminari in alcune delle più importanti sedi istituzionali, hanno già presentato tre disegni di legge, attualmente in discussione presso le Commissioni di Camera e Senato. Il loro nuovo obiettivo è Roma.
«Il lobbying è spesso oggetto di confusione e fraintendimenti», secondo Federico Castorina, presidente di Cultura Democratica. «Istintivamente si pensa a qualcosa che avviene di nascosto, a tutela degli interessi del potere economico. In realtà è presente in tutte le democrazie del mondo e, correttamente disciplinata, può addirittura rivelarsi utile». Travolta dall’ultima ondata di scandali e corruzione – ancora lungi dall’essersi esaurita –, in materia di lotta alla criminalità organizzata e tutela della trasparenza la Capitale è forse giunta al capolinea. E anche a livello metropolitano le lobby non mancano, anzi. Alla presenza di Alfonso Sabella e Valeria Baglio, assessore a Legalità e presidente dell’assemblea capitolina, lo scorso 10 aprile 2015 Cultura Democratica ha presentato nell’aula Giulio Cesare del Campidoglio una proposta di delibera d’iniziativa consiliare per il regolamento dell’attività lobbistica, discussa precedentemente in un workshop con la partecipazione di circa 50 giovani provenienti dalle principali università romane.
Secondo i curatori, si tratterebbe di «un forte deterrente contro le pratiche corruttive o altri comportamenti illegali riscontrabili nella pubblica amministrazione». L’idea, secondo l’esempio anglosassone, sarebbe di vincolare il lobbying all’iscrizione a un “Registro dei portatori d’interessi particolari”, istituito e monitorato da un Comitato per la trasparenza presso l’Avvocatura di Roma. A doversi iscrivere saranno i portatori d’interesse (aziende, sindacati, ong) e i rappresentanti di questi ultimi, ovvero i lobbisti di professione (soggetti incaricati a far valere tali interessi in sede istituzionale). I primi, tra l’altro, al momento dell’iscrizione dovrebbero comunicare il proprio settore d’interesse e l’ammontare delle risorse economiche stanziate per il lobbying. In sostanza, per i soggetti esterni al registro sarebbe illegale fare pressione sulle istituzioni.
Come garantire il controllo? «Lobbisti e rappresentanti politici dovranno presentare ogni anno una relazione al Comitato per la trasparenza, in cui specificare l’attività svolta, con tanto di dettagli su impiego delle risorse economiche, incontri, documenti forniti», ci dice Tommaso Giacchetti, direttore generale di Cultura Democratica. Dal canto loro, i politici dovranno garantire collaborazione ai lobbisti iscritti a Registro e rendicontare le proprie spese d’ufficio, con l’obbligo di rifiutare da parte di essi beni, servizi e denaro che superino il valore di 1.000 euro all’anno. Trattandosi di una delibera comunale – hanno spiegato i curatori della proposta – non è possibile assimilare eventuali violazioni a reati civili o penali, perciò sarebbero previste delle sanzioni, dal richiamo formale alla cancellazione dal Registro, cosa che impedirà lo svolgimento dell’attività di lobbying. Ai politici, invece, spetterebbe il richiamo e poi la pubblicazione su scala nazionale degli atti che lo vedrebbero implicato in attività illecite.
Se la delibera proposta da Cultura Democratica sarà recepita e magari approvata è da vedere. Ci saranno aspetti da approfondire e migliorie eventuali da apportare, ma certamente – soprattutto in un contesto come quello che la città di Roma sta vivendo – è un tentativo degno di nota e attenzione. E non è un caso che la presidente dell’assemblea capitolina si sia spesa per l’apertura di un percorso partecipativo in questo senso. Come ha commentato Paolo Masini, assessore a Scuola, Università, Sport e Partecipazione, «potrebbe essere un primo passo per regolamentare, se non la galassia delle lobby, almeno le relazioni tra politici e gruppi di interesse. Le stesse che spesso possono sfociare in episodi di corruzioni con gravi conseguenze sulla cittadinanza». E se Roma ha un vantaggio, «quello di essere spesso seguita da molti altri comuni italiani e quindi di poter essere d’esempio», si spera che altri raccolgano lo stimolo lanciato da questa delibera.