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“Mono no Aware” | di Alessandro Senzameno

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12 Apr 2015   di srognone
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Racconto |  «Era lì, mi fissava, lo sentivo, ma non capivo dove fosse effettivamente. Qualcosa mancava o non la comprendevo a pieno»

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[John Copeland – Ritratto di donna]

Ognuno di noi ha un luogo preferito dove fermarsi a pensare. Alcuni si mettono seduti sul bordo del letto guardando un punto ben preciso sul muro. Altri adorano e trovano il proprio momento di abbandono mentale mentre sono in mezzo al traffico.

Certi si drogano per pensare meglio o non pensare. Io invece adoro fermarmi davanti questa finestra, mettere le mani dietro la schiena e guardare la vita che si espande oltre quello schermo di vetro. I giorni di pioggia potrei quasi raggiungere il Nirvana. Mi piace guardare al mondo la fuori come un vecchio film pieno di righe e imperfezioni. Troppe persone associano la pioggia ai pensieri tristi e malinconici, qualcosa di negativo, solo perché a generarla sono delle nuvole grigie.Una strana prospettiva delle cose secondo me.

Oggi sono qui, davanti la finestra e piove come se Dio avesse anche questa volta qualcosa da rimproverare e il pensiero che si va a formare pian piano nelle pieghe della mia mente è quello di mia moglie. I nostri figli. La nostra famiglia. Questa casa. Già. L’involucro massimo di una persona. Mura e persone direbbe qualcuno. La più alta aspirazione e conquista secondo me. Come diceva Wim Mertens tramite delle note soavi: bisogna combattere per raggiungere il piacere. Ma non importa, questo è il mio momento, con il silenzio intorno e solo quel ticchettio continuo contro la finestra.

Leggero come un sogno mi torna alla mente il ricordo della prima volta che entrai in questa casa. Ero giovane al tempo. La mia fidanzata, quella che ora è mia moglie, mi aveva invitato per prendere un the e vedere un film. C’era ancora sua madre che girava per questi corridoi, ma era una sorta di fantasma, un’entità che percepivi ma non vedevi in una forma definita. Entrato in camera non potei combattere il mio vizio più grande, osservare con minuzia ogni minimo dettaglio che componeva quelle quattro mura. Non che sia un persona che giudica dalla apparenze, sia chiaro, amo però soffermarmi su tutte le increspature generate dalla nostra quotidianità, dai nostri tic.

I libri che leggiamo, il modo in cui disponiamo gli oggetti in una stanza, qualcosa che rimanda ai nostri hobby, poster, fotografie, vestiti su una sedia. Tutto. Ciò che vidi in quella stanza però mi lasciò inizialmente spaesato. Tutto era perfettamente in ordine: i libri ben composti ed ordinati lungo degli scaffali, una collezione splendida di conchiglie disposte senza un vero e proprio ordine ma che generavano comunque una composizione armonica, nessun vestito gettato o semplicemente appoggiato in un luogo che non fosse l’armadio, il letto ben fatto senza nemmeno una piega. Tutto era perfetto e basato su una semplicità che mostra la medesima semplicità della persona, la sua innocenza. Vedemmo il film mentre sorseggiavamo un the bianco lei e un Oolong io, tipologia che effettivamente preferisco su tutte, questa varietà però presentava si il caratteristico sapore intenso ma non era corposo come me lo aspettavo.

La cosa mi lasciò un tantino insoddisfatto e il senso di pacatezza che si poteva toccare all’interno di quella stanza era disturbato da qualcosa che però non individuavo. Era lì, mi fissava, lo sentivo, ma non capivo dove fosse effettivamente. Qualcosa mancava o non la comprendevo a pieno. Finito il film le diedi la buonanotte, le rimboccai le coperte e attraversai da solo quella casa buia dove l’aria era ferma, dove tutto era silenzioso, per arrivare fino alla porta e andare via. Mi era sembrato di attraversare una casa abbandonata.

Passarono le settimane e i mesi e più volte tornai a passare del tempo con la mia ragazza in quella casa, ma mai di sera. L’esperienza di quella sera mi aveva lasciato un senso di angoscia nel petto che non riuscivo né a giustificare né a gestire, la cosa ovviamente mi causava dei problemi con me stesso, soprattutto l’essere totalmente inerme. Pian piano, in quel periodo, mi spinsi ad esplorare ogni piccola parte di quella casa, e tutto era in ordine, tutto era al suo posto, tutto viveva in una tranquillità perenne e surreale, la stessa che vigeva nella camera della mia compagna.

L’immobilità non è uno stato che precede o procede il caos, ma uno stato intermezzo che lascia spazio ad ogni possibile interpretazione poiché ciò che vedi è esattamente ciò che senti, ma cosa accade se non senti nulla? Una sera, dopo che ormai erano passati veramente tanti, troppi mesi, dalla mia ultima visita notturna, capì che era arrivato il momento di tornare ad affrontare quel limbo di tranquillità. Da una parte mi spinse anche il senso di frustrazione che provavo nei confronti di Irora, alla quale non avevo mai detto apertamente ciò che provavo quando entravo nella casa dove viveva con sua madre.

Mi feci coraggio e andai. Anche quella sera bevemmo del the, lei il solito the bianco che tanto le piaceva, ed io il mio Oolong, di una qualità diversa questa volta però e devo dire anche migliore rispetto alla volta precedente. La soddisfazione provata in quel momento mi aiutò a rimanere più calmo anche se la stanza, come ogni volta che ero andato a farle visita, era sempre dominata da un ordine maniacale, un ordine che ti entrava dentro e ti faceva suo e tu, al quale potevi solo obbedire.

«Sto male» mi disse lei

«Come mai?»  risposi io

«Mi sento come bloccata, come se qualcosa mi tenesse incatenata in un punto noioso della mia vita»

«E’ colpa mia?»

«No, no…assolutamente. E’ che non riesco a spiegare»

«Prendi esattamente le parole che girano nella tua mente e usale»

«Sei mai stato al circo?»

«Da piccolo, ma non ricordo molto, solo una foto in cui tengo in braccio un cucciolo di tigre»

«A me piace il senso di meraviglia che crea nei bambini e nella loro innocenza»

«E non essere più una bambina ti disturba?»

«No, in realtà pensavo ai funamboli. A quel senso di incertezza che svanirebbe guardando in basso dove c’è una rete pronta a salvarli in caso di un errore»

«Non ti seguo»

«Penso a loro perché mi sento un poco come loro. Su una fune, in perenne equilibrio. Ma sono bloccata, non riesco ad andare avanti o indietro, e non riesco a vedere in basso se c’è la rete»

«Sei insoddisfatta di qualcosa?»

«Si, mi sento insoddisfatta e bloccata. Un sasso nel mondo»

«Purtroppo la mente spesso gioca degli scherzi che non riusciamo a controllare e allora dobbiamo affidarci a ciò che l’istinto ci suggerisce»

«Non lo so»

«Cosa?»

«Se seguirlo o meno»

«Cosa vorrebbe?»

«No, non posso!»

«Dirlo è come respirare, si trasforma semplicemente in aria»

«Mi vergogno»

«Amore mio, sono io. Mi vedi? Non potrei mai giudicarti»

«Davvero?»

«Si, non ricordi? Io e te contro il mondo»

Fece un profondo e lungo respiro.

Fece vagare gli occhi per la stanza.

«Sarai sempre al mio fianco?»

«Per sempre»

«E faresti qualsiasi cosa per me?»

«Certo»

«Uccidi mia madre»  disse lei

«Va bene» risposi io.

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