A pochi mesi dall’uscita dell’ultimo “In Each and Every One”, il collettivo modern jazz inglese si spinge nel Mojave in California per creare un’esperienza multisensoriale, più che un semplice disco
Brit-jazz? Indie jazz (sebbene ormai il termine indie sia diventato quanto di più fastidiosamente utilizzabile in giro)? Di certo recintare i Polar Bear entro certi generi è impresa ardua. Anzi, diciamolo, tempo perso. Formatisi in Inghilterra nel 2004 per iniziativa del leader, vocalist e percussionista Sebastian Rochford a cui si unirono in seguito Pete Wareham al sax baritono e tenore, Mark Lockheart al sax tenore, Tom Herbert al contrabbasso e Leafcutter John all’elettronica non hanno mai lesinato in quanto a sperimentazione e spazialità attraverso vari generi musicali.
Con sei dischi all’attivo (di cui il secondo “Held on the Tips of Fingers” uscito nel 2005 ricevette un consenso quasi unanime di critica e pubblico britannici più una candidatura ai Mercury Music Prize, l’equivalente inglese dei Grammy) il 30 marzo si apprestano a pubblicare “Same as you”, il quale vede la luce pochissimo tempo dopo l’ultimo “In each and every one” (nominato anch’esso ai Mercury Prize). Sarebbe spontaneo ipotizzare una quasi naturale contiguità musicale tra le due opere visto il lasso di tempo di realizzazione piuttosto breve, eppure “Same as you” si distacca in maniera abbastanza netta da quest’ultimo.
Pur tenendo la rotta su binari consueti, oscillando in maniera quasi inquietante tra jazz (appunto), rock, trip hop, dub, elettronica e ambient, “Same as you” si pone asciugando soprattutto le parti dei sintetizzatori e facendo maggiore affidamento a sonorità più etniche. Avrà forse sortito l’effetto il luogo prescelto per la produzione del disco: in sei settimane il gruppo si ritrova col produttore Ken Barrientos nel deserto del Mojave in California per registrazione e missaggio del prodotto, il quale, alla fine del lavoro, lascia proprio un senso di perdita tra la vegetazione spoglia e dai colori cangianti dei dintorni della Death Valley.
Pensato singolarmente come un’unica opera monotraccia snodata in più movimenti, si è deciso in un secondo momento di dividere il disco in sei tracce, le quali mantengono comunque una forte coerenza reciproca, sia per quanto riguarda il tempo, sia per l’evoluzione “concettuale” che percorre il sentiero dell’album. Lo stesso Rochford dichiarò che questo sarebbe stato un lavoro «about love and philosophy», dalla natura spontaneamente ritmoterapeutica. Se si può dire, si potrebbero interpretare queste sei tracce come un percorso di “music mindfulness”.
L’apertura dei giochi infatti, affidata a Life, Love and Light, trova subito un tappeto ambient su cui poggia l’omonimo passaggio (scritto apposta per l’album) di Asar Mikael, proprietario di “The Light Shop” istituto culturale giamaicano presso il Regno Unito a Tottenham. Il messaggio di positivismo spirituale funge quasi da biglietto d’ingresso al resto dell’opera, come fosse un massaggio preparatorio a un’esperienza quasi trascendentale. E infatti We feel the echos e The first steps istigano al movimento, portando avanti dei solidi pattern ritmici con le percussioni e il contrabbasso, mentre Of Hi Lands tira il freno. Ma per non far svanire il groove ci pensa la successiva Don’t let the Feeling go, seconda e ultima traccia che presenta una linea vocale spartita tra Rochford, la cantautrice Hannah Darling e tanto di coro. Dove il mantra pop ripetuto fino all’ossessione funge da preghiera all’ascoltatore per rimanere seduto (anzi, in piedi a ballare). Per poi sfogarsi nella conclusiva Unrelenting Unconditional, brano di venti minuti che strizza brillantemente l’occhio al Miles Davis più avanguardista.
Concepito e suonato in totale disinvoltura, quest’ultima prova non mira di certo a una oggettiva soddisfazione dei fini timpani del pubblico. Difficilmente infatti si potrebbe adottare un preciso criterio estetico per valutarla. Ma seppur così unico nel suo genere, questo disco riesce pienamente nel suo intento di trasporto spirituale, regalando davvero un’esperienza a tratti curativa.