L’Asian Infrastructure Investment Bank è realtà. Voluto dal presidente Xi Jinping con la partecipazione di molti Paesi asiatici, il nuovo istituto concorrerà con la leadership americana nelle politiche di sviluppo. Scalpore per l’adesione di Italia, Regno Unito e Germania. Alla faccia degli Stati Uniti. Mentre la Russia esulta
Ci aveva pensato già la Gran Bretagna a far andare su tutte le furie Obama, ma l’ingresso dell’Italia nell’Asian Infrastructure Investment Bank ha fatto saltare definitivamente il banco. La nascita dell’istituto cinese, promossa dal presidente cinese Xi Jinping, a detta degli americani è una mossa strategica in chiave economica per creare concorrenza e svincolare i paesi dal monopolio della Banca Mondiale (notoriamente sotto il controllo del governo Usa) e dalla crescente influenza dell’Asian Development Bank (ugualmente sotto il controllo delle autorità statunitensi). La notizia rilanciata pochi giorni fa dal Financial Times parla di un serio interesse italiano a diventare soci fondatori dell’istituto, aderendo formalmente prima del 31 marzo, data oltre la quale si potrà diventare solamente soci semplici. Al momento dall’istituto sono rimasti fuori, tra Paesi dell’area asiatica, il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia, ma quest’ultimo sembra stia concretamente valutando il suo ingresso. Diverse le posizioni della Corea e del Giappone. Quest’ultimo infatti è tra i principali sostenitori dell’Asian Development Bank, mentre la Corea è tutt’ora imbarazzata all’idea di fare anch’essa uno sgarbo agli alleati americani.
In breve tempo l’Asian Infrastructure Investment Bank ha raccolto un ampio consenso e sembra poter davvero favorire un nuovo mercato degli investimenti nel settore energetico, digitale e delle infrastrutture. Spiegare lo sdegno statunitense non è semplice, anche perché le ragioni sono sia di natura politica che strettamente commerciali. L’opportuna premessa è che i fatti dimostrano come gli Usa abbiano da sempre un potere di nomina sul presidente della Banca Mondiale, un potere scambiato con quello europeo per la nomina del capo del Fmi. Il compromesso politico fa sì che il sistema economico multilaterale sia di fatto mosso dalle medesime strategie e necessità, nonché da interessi convergenti. Ma i limiti del Fmi e della Banca Mondiale sono da tempo evidenti a tutti i Paesi membri. E più di una volta gli Usa sono stati accusati di aver impedito l’aumento delle quote del Fondo Monetario, non ratificando l’accordo raggiunto. Colpa del Congresso ormai Repubblicano? Forse, ma come a tutti viene richiesto di mantenere gli impegni al di là delle difficoltà politiche interne, anche a Obama viene richiesto di trovare una soluzione a un problema che riguarda mezzo mondo.
I poteri dell’Asian Infrastructure Investment Bank sono ancora in fase di sviluppo, basti pensare che la nuova banca disporrà dell’equivalente di 100 miliardi di dollari, contro gli oltre 350 della Banca Mondiale. Ma col tempo, se tutti i tasselli dovessero andare al loro posto, potrebbe eguagliare il peso economico dello storico istituto e scardinare l’ormai radicato monopolio finanziario made in Usa. Il governo americano al momento maschera la propria rabbia chiedendo agli alleati europei di valutare un eventuale ingresso solo dopo essersi accertati che alla base del nuovo istituto ci sia una policy rigida e rispettosa degli standard ambientali e lavorativi che abbiamo in occidente, un pretesto che a molti potrà sembrare ipocrita da parte di un paese che solo ultimamente si è interessato alle questioni climatiche.
La realtà è che gli Usa non hanno le armi politiche per frenare il corso degli eventi, ora che l’assetto economico mondiale pende dalla parte di Pechino e dei Paesi emergenti del sud est asiatico. Ma può ancora dire la sua con accordi economici multilaterali. Parliamo del TPP, la Trans Pacific Partnership, accordo gemello dell’ormai noto TTIP tra Usa ed Ue, ma stretto con i Paesi asiatici. Ebbene, da quell’accordo la Cina è stata estromessa, ufficialmente per i soliti standard lavorativi-ambientali, ma nella pratica per tentare un isolamento commerciale senza precedenti. Qualcuno ipotizza che lo sviluppo dell’Asian Infrastructure Investment Bank sia una contromisura commerciale ideata per ricambiare il favore agli Usa.
Le dichiarazioni da parte del binomio Banca Mondiale/FMI riportate da Il Sole 24 Ore fanno il resto del lavoro e non richiedono ulteriori commenti. «Il Fondo Monetario Internazionale dà il benvenuto a tutte le iniziative che puntano a rafforzare la rete di istituzioni multilaterali che erogano prestiti e che aumentano i finanziamenti disponibili per infrastrutture e sviluppo, inclusa la neo-nata Asian Infrastructure Investment Bank». Senza soffermarci sull’erogazione di finanziamenti “orientati allo sviluppo” da parte della Banca Mondiale, l’invidia nella dichiarazione svela in pieno l’insicurezza che aleggia negli ambienti americani. Non è il caso di stupirsi se qualcuno prova a liberarsi dal gioco delle istituzioni statunitensi. Oggi, infatti, la realtà impone di arginare le difficoltà economiche del Vecchio Continente stringendo alleanze ad oriente per favorire le esportazioni e ridurre il gap tecnologico verso alcune realtà asiatiche si primissimo livello.
Da qui ad esultare per la nascita di questo istituto però ce ne passa, e se le diatribe geopolitiche stuzzicano la fantasia di chiunque, gli effetti economici di questa divisione dei poteri che indirizzano lo sviluppo economico lascia più di qualche perplessità e rischia di creare una spaccatura in termini di zone di influenza a seconda della vicinanza politica ai modelli americani o cinesi. Di certo, al momento, c’è solo la sconfitta politica ed economica degli Stati Uniti, di fatto relegati a seconda potenza mondiale, nonché la fine dell’isolazionismo russo. Se qualcuno si fosse chiesto che fine avesse fatto Putin negli ultimi dieci giorni ora non dovrà più farlo. I festeggiamenti a Mosca sono appena iniziati e Putin non mancherà di mostrare la sua riconoscenza a Pechino.