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Animale malinconico, l’uomo nella street art di Borondo

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4 Mar 2015   di Giorgia Basili
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Un artista poliedrico, che spazia tra vari supporti e tecniche artistiche. Opere sempre diverse, permeate da una grande espressività, ma anche da inquietudine. Perché la vita è fatta di incomunicabilità. E, quindi, di malinconia

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Gonzalo Borondo, è un talento inarrestabile. Spagnolo di Segovia, classe 1989, ha frequentato l’istituto artistico e la Complutence di Madrid, scegliendo poi Roma come meta Erasmus. A soli 18 anni partecipa al suo primo Festival di Street Art ad Istanbul, ottenendo un grande successo e consacrandosi artista di fama mondiale. In occasione della sua ultima mostra, Animal, inaugurata lo scorso 5 Febbraio presso la Galleria RexRomae di Londra, il giovane artista ha presentato una serie di nuove opere.

Una donna completamente nuda, capelli sciolti che cadono sulle spalle, rosso fuoco. Una coperta di foglie autunnali sul prato. Si aggira, ondeggiando sinuosamente col proprio corpo macchiato di sangue. Sono alternate delle inquadrature di cani che abbaiano dietro la ringhiera di un cancello. La bellezza del corpo immacolato, senza accessori, senza tatuaggi passa in secondo piano, dietro agli interrogativi. Perché è nuda? Cosa le passa per la testa? La libertà senza inibizioni. Siamo tutti animali in gabbia o siamo liberi col nostro corpo e nel nostro corpo?

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Abbandonati le sovrastrutture, gli strati di tessuto, il trucco. Il corpo non è un involucro, è il prolungamento della nostra anima. La ragione diventa controllo se si limita a tenere a bada i nostri istinti. L’uomo gettando via pregiudizi e regole comportamentali prefissate, va oltre il luogo comune, e riprende possesso del proprio habitat naturale. L’istinto come un sesto senso guida il nuovo uomo, che ha rispetto di sé come animale e non soltanto come essere stra-ordinario.

Delle bende coprono solo il volto come un sudario nel murales del Circolo Mario Mieli (Circolo di Cultura Omosessuale) di Via Ostiense a Roma. Senza inibizioni le forme umane con delle torsioni semplici ed intriganti sembrano danzare sulla superficie, al ritmo delle proprie cadenze interiori, pur restando immobili. Si offrono agli sguardi, al nostro giudizio, ma non vedono e non vogliono vederci.

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Borondo riscopre così l’animalità come un valore. Nei suoi lavori, le figure, non appesantite dalle vesti, risultano scarnificate, scuoiate. Non sono premiate le rotondità e le forme piene, ma la levigatezza estrema. L’uomo è derubato della fecondità del vivere, rincorso dalle preoccupazioni quotidiane, dalla sconfitta, dalla brutalità della convivenza negli stessi spazi. Come le sculture filiformi di Giacometti che, spogliate dei tratti identificativi, si riducono a scheletri. L’esistenzialismo di Sartre, ricorre in queste opere, in cui si abbandona il superfluo per l’intima sostanza. L’espressività è poi il tratto distintivo dell’artista: molte figure hanno il volto nascosto tra le mani, gli occhi chiusi, lo sguardo perso, ma la desolazione, il deserto della solitudine, si legge tra le righe.

Tre figure sul vetro di un ex banca in Via Nazionale, la scelta non è casuale. Raccolte in se stesse, sono così vicine eppure non si toccano, sono prismi a se stanti. La centrale è di spalle, la testa piegata in avanti, il collo leggermente teso. Le figure femminili ai lati con le braccia incrociate sul petto, come a farsi scudo dagli sguardi indiscreti o dal freddo che le attornia. Una cerca quasi in tono di sfida di attirare la nostra attenzione, di soppesare i nostri pensieri, l’altra abbassa lo sguardo schierandosi sul “non c’è più nulla da fare”. Delle silhouette bianche, rese con un chiaroscuro invidiabile, in cui le ombre sembrano uscire fuori per risulta dalle parti di colore grattate via. Le “Tre Grazie” hanno perso ciò che le contraddistingue, lo splendore, la gioia e la prosperità.

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Qual è il segreto di Borondo? La continua sperimentazione. Diverse tecniche, diversi mezzi, diversi materiali. La noia non fa per lui, dobbiamo essere pronti ad abbandonare il tradizionale approccio con l’arte, lasciarci stupire dal suo continuo mettersi in gioco. Lui mischia pittura ed incisione. Ad esempio, usando la tecnica della Glass scratching, raschia via dalla superficie interi tócchi di colore. «Gratti un po’ il vetro e di colpo puoi vedere all’interno. Lo trovo decisamente poetico, il vetro ha qualcosa di magico. A volte procedo al contrario: dipingo spots pubblicitari luminosi in nero e lascio trasparire la luce grattando».

Per l’iniziativa “Descubriendo el grafito” (Mulhouse, Francia 2014), dopo aver coperto con vernice bianca la propria creazione, eseguita su due vetrine di un negozio, lascia che venga raschiata via la pittura sovrapposta. Si viene a creare così un ulteriore momento creativo, grazie alle scritte, ai disegni, alla libera espressione dei passanti che interagiscono con l’opera d’arte. Mano, mano si elimina totalmente lo strato superficiale ed escono fuori le fattezze di un uomo e di una donna. Gli occhi chiusi, la fronte lievemente contratta, entrambi sono vigili e concentrati nello scrutare se stessi e i propri sentimenti.

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Il suo tratto è inconfondibile, sembra lasciare che le pulsioni umane fuoriescano dal muro in pochi segni, come allo stato di abbozzo. I suoi volti sono spigolosi, un incastro di linee e sfaccettature che rompono con la prerogativa geometrica per rivelare l’essenzialità dell’essere uomo. Lavorando sul vetro può giocare con la trasparenza della parete, rendendo l’immagine sensibile alla luce ed aumentando l’effetto di evanescenza e di fragilità delle figure.

In un murales a Parigi, una schiera umanoide, un battaglione di esseri nudi senza distinzioni somatiche, irriconoscibili nella loro anonimità sembrano marciare verso il nulla. In primo piano, la figura centrale ci dà le spalle e lateralmente campeggia la scritta against che si trasforma in again. Una guerra contro la persona. Non esiste più l’io cosciente, rimangono degli automi. L’incomunicabilità è l’abisso che divide l’uomo e lo rende un’isola in mezzo ad un oceano di isole altre.

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La chiave per leggere la street art di quest’artista eccezionale, si riscopre nel fardello incommensurabile della Malinconia. Uno status costante, che ci assale, ci mozza il fiato: sono gli occhi chiusi delle sue creature, che sentiamo il bisogno di accarezzare, ma si tirano indietro con la freddezza esilarante di chi commuove ma non vuole essere consolato.

La vita non è un film e in opere come Fugit Tempus, il tempo scorre con le sue coordinate non schematizzabili: una ghirlanda di fiori prende fuoco, sotto i buoni auspici dell’artista, lasciando sul muro grigio la traccia della sua presenza. Borondo cancella con una barra il verbo latino fugit segnando al suo posto una virgola di sospensione, come se l’eccitazione dell’attesa rimpiazzasse quello che è stato. La Malinconia è ciò che resta delle speranze eluse, della voglia inesauribile di un cambiamento che tarda ad arrivare.

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