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“Il ritorno di Rutilio” | di Fulvio Cozza

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1 Feb 2015   di srognone
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Il viaggio di Rutilio – Capitolo VI | «Rutilio!», urlò il barone completamente fuori di sé, «cosa hai visto dall’altra parte? Cosa hai visto?! Parla!»

ultimo chap

[ Copertina dell’Almanacco Perpetuo di Rutilio Benincasa edito in Venezia nel 1665 ]

Mentre correva ad informare il barone del luogo della sepoltura di Rutilio ed a consegnargli l’ultima lettera con tre mesi di anticipo Fabbrizzo fu inghiottito dalla bufera di neve. Il vecchio raccolse tutte le energie che aveva in corpo e cominciò a strisciare su quel manto ghiacciato.

Dopo che ebbe guadagnato solo qualche metro cominciò a sentire la neve aumentare di volume e capì che di lì a poco avrebbe finito per seppellirlo vivo.

Un’ultima idea disperata gli affiorò dalla mente.

Il vecchio mandriano trasse dalla tasca il suo fedele flauto, gonfiò i polmoni devastati da un dolore struggente, e prese a suonare quel flauto con tutto il fiato vitale che riuscì a convogliare alla bocca. Ne fuoriuscì un suono potente che bucò la coltre di ghiaccio, attraversò il vento e finì nelle orecchie assopite di un pastore che da quelle parti aveva la baracca e la mandria.

Subito quel pastore riconobbe lo strumento di Fabbrizzo e capì che il vecchio mandriano era in pericolo. Il pastore corse verso quel suono, attraversò la bufera ma giunto nei pressi di un punto di ascolto più propizio, per quanto si sforzasse, non riuscì più a distinguere quel fischio.

Il pastore decise comunque di scendere ancora un po’ per controllare la pista che porta al villaggio di Trino e appena vi giunse scorse i segni del passaggio strisciato di un uomo. Il pastore seguì quelle blande tracce col fiato pesante e respirando l’aria gelida che faceva male al petto.

Finalmente avvistò qualcosa nella neve, corse a controllare e ritrovò Fabbrizzo. Il mandriano aveva disegnato sul volto il ghigno della morte ma emetteva ancora un flebilissimo respiro.

Il pastore lo raccolse da terra e con uno sforzo da titano riuscì a trasportare Fabbrizzo nel tepore della propria baracca. Il pastore tolse i vestiti di Fabbrizzo, lo avvolse di coperte e velli ed ravvivò il fuoco del caminetto che ben presto divenne caldo quanto la fucina di un fabbro.

D’un tratto Fabbrizzo aprì gli occhi, si guardò intorno con una smorfia di atroce sofferenza e con la mano tremolante indicò il mucchio di abiti gelati che il pastore aveva sistemato ad asciugarsi accanto al fuoco.

«Vecchio », disse il pastore, «cosa cercate in quegli abiti?»

Fabbrizzo fece una smorfia di rabbia perché non riusciva più a parlare, scosse la testa e con la mano indicò nuovamente i suoi vestiti. Il pastore si mise a frugare nelle tasche degli abiti e finalmente ne trasse una lettera. Subito la mostrò a Fabbrizzo che ebbe un fremito di gioia.

«Vecchio, io non so leggere», disse il pastore stringendosi nelle spalle, «a chi devo portare questa lettera?»

Fabbrizzo sentì la sua ora giungere e con l’ultima scarica di energia che aveva in corpo balbettò:

«Ba… ro… ne!»

Poi Fabbrizzo si maledisse, maledisse la sua vecchia età, maledisse il segreto che aveva nascosto al padrone, maledisse la sua incapacità di avvisare che Rutilio, per ritornare in vita, avrebbe avuto bisogno di altri tre mesi di permanenza sotto terra e che ogni giorno, al mattino, a mezzogiorno e alla sera, un litro di latte andava versato sulla sua tomba. Il vecchio pregò che tutte queste cose Rutilio le avesse scritte nell’ultima lettera. Egli non lo sapeva poiché non sapeva leggere e anche per questo Fabbrizzo si maledisse.

Il vecchio mandriano spirò.

Il pastore accanto a lui si segnò, abbassò il capo e pianse singhiozzando mentre all’esterno imperversava l’urlo selvaggio della bufera.

A notte inoltrata, di colpo, la tempesta si placò, le nuvole sparirono mostrando al mondo una ciclopica coperta ricamata di stelle.

Il giorno successivo, nel villaggio di Trino, il barone fu svegliato di buon mattino da un pastore.

«Che succede?», chiese il vecchio barone aprendo il portone incrostato di ghiaccio.

«Signore, ho una brutta notizia», disse il pastore, «questa notte è morto Fabbrizzo, il vostro fedele mandriano».

Il barone ebbe un fremito e cadde in ginocchio sulla soglia della sua dimora. Subito il pastore lo aiutò a rialzarsi e lo accompagnò sulla poltrona accanto al caminetto ancora spento e con la cenere che ricopriva interamente uno strato fragile di braci dormienti.

Il pastore trasse dalla tasca la lettera e la porse al vecchio barone.

«Prima di morire», disse il pastore, «mi ha pregato con gli occhi di consegnarvi questa lettera. Non so chi l’abbia scritta, egli di certo non sapeva farlo. Non sapeva nemmeno leggere e nemmeno io so farlo», concluse amaramente il pastore.

Il barone immediatamente riconobbe la scrittura di Rutilio.

Carissimo padre,

vi chiedo perdono per l’atroce tranello al quale vi ho sottoposto facendovi recapitare da Fabbrizzo le precedenti due lettere prima di questa. Sappiate che egli è stato costretto da me a compiere questo inganno perciò vi chiedo di dispensarlo da ogni colpa o punizione che riterrete di imputargli. L’ho minacciato padre, ho dato il peggio di me stesso con lui che sempre è stato buono con me. Egli non sa nemmeno leggere e le tre lettere che vi ho scritto le ho ordinate una sopra l’altra affinché il vecchio Fabbrizzo non facesse errori nel consegnarvele per ordine.

Sono stato io ad ingannarvi. Nel momento in cui vi scrivo quest’ultima lettera ho ottenuto da Fabbrizzo il favore di essere ucciso e seppellito in una radura poco distante dalla sua baracca sulle montagne. Egli, mi farà (a questo punto dovrei scrivere “mi ha fatto”) da guardia per tutti questi mesi.

Tutte le cose che vi ho scritto sul mondo dei morti sono tutte finte e sono la descrizione letteraria di come mi piacerebbe che fosse l’aldilà. Il passaggio del ponte, lo scontro con gli altri me, la bimba, Rodostella e Cacciafrittata, e persino l’avvistamento di mia madre (che tuttavia non ebbi il coraggio di descrivere per non offendere la sua memoria), tutte effimere invenzioni, figlie delle mie letture e delle storie che ebbi occasione di udire. Era questo l’unico modo per alleviare le vostre preoccupazioni in questi miei mesi di assenza.

Il mio vero viaggio nell’aldilà partirà quando, fra pochi minuti, consegnerò questa e le altre due lettere a Fabbrizzo. Poi mi farò uccidere e seppellire in questo luogo. Capite bene, carissimo padre, che non potevo rivelarvi questo progetto perché vi avrebbe troppo addolorato.

Tuttavia nel vostro oggi, cioè nel momento che leggete quest’ultima lettera, dovrà terminare la mia prigionia sepolcrale nonché il mio viaggio meraviglioso.

Correte quindi a liberare vostro figlio dalla terra, Fabbrizzo vi guiderà il cammino e solo allora saprete finalmente la verità circa quella porzione di universo che spaventa tutte le creature e che io mi appresto a visitare.

A fra poco.

Rutilio

Immediatamente il padre di Rutilio, il vecchio barone, sellò il suo cavallo e con un gruppo di abitanti del villaggio si lanciò al galoppo verso le montagne. Il percorso era assai accidentato dalla neve e per diverse volte i cavalieri rischiarono di scivolare e precipitare in qualche burrone.

Faticosamente attraversarono la pista innevata, giunsero alla baracca di Fabbrizzo e presero a perlustrare il bosco da cima a fondo finché non notarono una porzione di terra che qualcuno aveva da poco liberato da una gran massa di neve.

Gli uomini, sotto lo sguardo vigile del vecchio barone, spalarono via la neve caduta nella giornata precedente, quindi presero a scavare la terra ammorbidita e abbellita da una vivace erbetta verde fosforescente.

«Fate piano!», urlò il barone, «c’è Rutilio là sotto!»

Gli uomini scavarono alacremente finché dalla terra, d’un tratto, comparse la copertina di un libro.

«L’Odissea!», urlò il barone trepidante, «il libro che Rutilio ha portato via con sé».

Il pesante volume fu tratto fuori dalla tomba e sotto di esso comparve qualcosa che somigliava moltissimo al braccio di un essere umano ma appariva come invischiato in un liquido trasparente.

«Scavate adagio», raccomandò il barone.

Con estrema attenzione gli uomini presero a spostare la terra con le mani e molto lentamente apparve alla vista degli uomini giunti nel bosco una figura raccapricciante.

Il corpo di Rutilio era rimpicciolito, completamente glabro e raggrinzito, avvolto in una schiuma trasparente appiccicosa, la bocca sdentata, le estremità degli arti erano rosee e non ancora definitivamente formate, infine un attorcigliato cordone ombelicale lo collegava direttamente al terreno come una sorta di radice.

Gli uomini si misero le mani nei capelli alla vista di quel corpo prematuramente esposto ai raggi del sole.

Il vecchio barone cadde in ginocchio atterrito e prese a singhiozzare disperato.

Quell’essere incompleto, improvvisamente, ebbe una specie di sussulto.

Quel Rutilio prematuramente disseppellito aprì gli occhi iniettati di sangue e con le pupille bianche si guardò intorno scoprendosi cieco.

Rutilio cominciò ad urlare come se il suono delle voci intorno lo ferissero, come se tutta quella situazione lo terrorizzasse.

Il ragazzo cominciò a tremare e si poterono vedere i suoi organi interni pulsare all’impazzata al ritmo parossistico del torrente di emozioni che gli diede il contatto improvviso con l’aria.

Subito il barone si avvicinò al figlio e cominciò a carezzargli il pallido viso spaventosamente venato di striature bluastre.

«Rutilio!», urlò il barone completamente fuori di sé, «cosa hai visto dall’altra parte? Cosa hai visto?! Parla!»

Il ragazzo smise di urlare, subito gli uomini intorno trattennero il fiato e tesero l’orecchio per scoprire finalmente cosa Rutilio avesse da raccontare. Il ragazzo aprì la bocca facendo fuoriuscire dei rivoli di bava verdognola.

«Troppo…», biascicò Rutilio, «Troppo presto… mi avete svegliato troppo presto… avrei potuto raccontato cose straordinarie!»

Il respiro del ragazzo si fece pesante. Rutilio chiuse le palpebre, afflosciò tutti i muscoli e con un ghigno osceno abbandonò definitivamente la vita.

Il barone tentò di strapparsi i capelli poi, tappandosi la bocca con le due mani, cadde in un pianto muto e struggente.

Gli uomini di Trino adagiarono la salma di Rutilio in una cassa e la trasportarono a spalla nel villaggio. La bara fu deposta nell’angusta chiesetta di Trino divenuta insolitamente sovraffollata da tutti gli abitanti dispiaciuti per la triste fine del ragazzo.

Furono sistemati tappeti di fiori e scorsero fiumi di lacrime.

Alcune donne intonarono il lamento funebre.

Dopo il funerale la bara fu deposta nello scarno cimitero di Trino in una buca poco distante dalla tomba di Fabbrizzo e di quella della bimba morta diversi mesi prima, proprio accanto alla lapide della madre di Rutilio.

Dal villaggio, attraverso le campagne, lungo le piste dirette alla capitale del regno, ovunque, si diffuse la storia del grandioso viaggio di Rutilio.

La sua impresa fallì solo per un soffio poiché proprio la morte lo colpì prima che Rutilio potesse rivelarne l’eterno segreto.

 

NOTA A “IL VIAGGIO DI RUTILIO”

 

Il viaggio di Rutilio è liberamente ispirato ad una fiaba popolare calabrese che ho integrato e stravolto in alcuni punti con l’obbiettivo di costruire un racconto autonomo che tuttavia si muovesse all’interno di un panorama culturale molto simile a quello delle classi popolari rurali del mezzogiorno italiano, in particolare calabresi.

In buona sostanza ho tentato di far muovere i personaggi della mia storia in un contesto modulato sulla base degli studi antropologici che fino a qualche anno fa venivano definiti con i nomi di Demologia o Storia delle Tradizioni Popolari.

Mi preme segnalare che nel racconto sono presenti degli stralci dell’Odissea nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti.

Ho inoltre modificato leggermente il nome del personaggio principale, da Rotilio a Rutilio, nel tentativo di distinguere leggermente il mio racconto dalla trascrizione della versione orale del 1934.

 

LA FIABA DI ROTILIO

 

La struttura basilare del mio racconto è liberamente ispirata alla Fiaba di Rotilio contenuta nel volume pubblicato a Parigi nel 1934 con il titolo Mélances de philologie, d’histoire et de littérature offerts à Henri Hauvett.

In questo libro il folklorista e filologo Letterio Di Francia riporta e traduce la fiaba raccolta da un certo Domenico Giuffrè, canonico di Palmi, borgo calabrese nonché paese natale dello stesso Di Francia.

Ecco la versione riportata nel volume:

Una volta c’era un padre, che aveva un figlio. Questi si chiamava Rotilio. Il padre era molto ricco e possedeva un grande fondo sopra la montagna. Un giorno, Rotilio disse al padre, che voleva andare sopra alla montagna e doveva stare fuori per nove mesi. Il padre gli chiese, che cosa doveva fare per tanto tempo; ma egli non gli volle dare conto dei fatti suoi, e tanto lo pregò fino a che suo padre acconsentì: però gli raccomandò di scrivere mese per mese. Rotilio promise e, dopo che si pigliò i vivere per tutto il tempo che doveva stare sulla montagna, prese con sé un servo e partì. Arrivati sulla montagna, presero alloggio in una casa, che si trovava là; e mentre il servo stava attento a ordinare tutte le cose, Rotilio scrisse una lettera al padre suo e gliela mandò, Dopo, scrisse altre nove lettere di risposta, che aveva da mandare a suo padre, una per mese, e quando finì di scrivere, chiamò il servo e gli disse: – Tu mi devi promettere di fare come ti dico io, e mi devi promettere di non parlare con nessuno. Se mi prometti di tenere il segreto, io ti dirò la mia intenzione. – Così il servo fece ampia promessa, e Rotilio gli disse: – Io voglio andare all’altro mondo, e poi ritorno. Tu vedi queste lettere; non le toccare come sono ordinate, perché me ne incoglierebbe male. Quando poi scriverà mio padre, tu piglia la lettera di sopra, e gliela mandi; e così farai mese per mese. M’hai capito?

– Sì, signore.

– Ora – continuò Rotilio, – ora piglia quella madia, poi mi ammazzi e mi fai a tocchi; in seguito a questa operazione, mi sotterri in quel mucchio di letame. Se Resta sangue nella madia, lo lavi con l’acqua e lo getti dove sono sepolto io; poi lo copri con lo stesso letame. Bada che in quel mucchio di letame tu devi gettare un litro di latte la mattina, due litri a mezzogiorno e un litro la sera, e questo bisogna farlo tutti i giorni; perché io, dopo nove mesi, torno in vita, e poi ti racconterò tutto quello che vedrò nell’altro mondo. Se qualcheduno domandasse di me, digli che non ci sono.

Dopo questo discorso curioso, il servo non lo voleva uccidere, perché si spaventava di suo padre; ma Rotilio, per liberarlo da ogni paura, gli dovette fare un biglietto, dicendo che fu lui a voler essere ammazzato, e il servo ha eseguito semplicemente i suoi ordini. Quando il servo si vide così assicurato, conservò il biglietto e poi uccise il suo padrone. Lo fece a tocchi, come gli aveva detto, e lo sotterrò nel mucchio di letame. Gettò il latte sopra il letame, giorno per giorno, la mattina, a mezzogiorno e la sera, e poi, allorché gli scriveva il padrone, mese per mese gli mandava le lettere, l’una dopo l’altra. Così fece per sette mesi, e le cose procedettero sempre bene; ma un giorno capitò che il vento gettò in terra le due lettere che rimanevano, e quando il padrone scrisse, il servo, che non sapeva leggere, invece di mandare la lettera dell’ottavo mese, mandò quella che doveva mandare per ultima.

Il padrone, quando lesse la lettera che gli arrivò, si meravigliò molto e disse: – Come! Questo figlio mio a un colpo impazzì! Io gli scrivo una cosa e lui me ne risponde un’altra. Andiamo a vedere che cosa è succeduto.

Quando il padrone arrivò alla montagna, subito chiamò il servo e gli domandò notizie del suo figliolo; ma il servo rimase tutto confuso. Cercò di dirgli che il signorino non c’era, che era andato a un luogo lontano; ma, allorché il padrone insistette per sapere la verità, il servo s’impappinò e non poté fare a meno di palesare tutto il fatto: questo, questo e questo. Alla fine, per prova della sua innocenza gli mostrò il biglietto che gli aveva rilasciato il padrone. Subito il povero padre sentì queste cose, tutti e due si recarono al mucchio del letame, lo scavarono tutto, ed ecco che trovarono Rotilio. Trovarono Rotilio, che era come un figlioletto piccolino, già tutto formato: solo che gli mancavano le dita dei piedi. Lo risvegliarono, e Rotilio aveva l’intestino dell’ombelico attaccato ancora alla terra. Si alzò, aperse gli occhi e soggiunse:

Se Rotilio campava,

Li cosi di l’autru mundu raccuntava.

(se Rotilio fosse vissuto le cose dell’altro mondo avrebbe raccontato).

 

 

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