Capitolo IV – Il viaggio di Rutilio | «Lette queste parole il barone prese a singhiozzare e assecondando l’istinto si voltò per guardarsi intorno con la speranza di vedere il figlio Rutilio o un segno del suo passaggio. Ma neppure uno scricchiolio si fece udire»
Il vecchio barone di Trino, per diversi minuti, indugiò con lo sguardo malinconico al caminetto, verso il focolare sfrigolante, prima di riprendere la lettura dell’ultima parte della missiva di Rutilio inviata dal mondo dei morti che aveva come oggetto l’incontro con la defunta madre del ragazzo, la baronessa di Trino.
Caro padre, a questo punto mi feci coraggio, la bimba che mi guidava in questo viaggio mi prese per mano e mi scortò verso una porzione di quell’universo più placida e meno affollata. Da qui si dipartiva uno stretto cunicolo irrorato da una rinfrancante luce.
«Segui quella luce», disse la bimba, «io ti aspetterò qui».
Sospirai e procedetti in quella galleria col passo incerto, stringendo sotto il braccio il mio volume dell’Odissea. Al culmine di questo percorso fui travolto da un torrente di sospiri, mi comparvero i volti di sconosciuti defunti che chiedevano di essere ascoltati e tra loro si fece innanzi una donna dai lunghi capelli, proprio come quelli da voi descritti di mia madre. Forse per la grande emozione, un bagliore accecante scaturì da ogni minuscola fibra di quel luogo, dovetti chiudere gli occhi, le orecchie mi pulsarono sotto il frastuono del pianto struggente dell’intera umanità che non è più.
In quel preciso istante caddi a terra come svenuto e piombai, completamente immemore di me stesso, in un immenso antro bianco e glaciale.
Una sensazione orrenda mi oscurò la scintilla della mente e fui proiettato in una dimensione più lancinante del dolore, più orrenda del terrore, più struggente della rabbia, più consumante della noia.
Mi trovavo bloccato in un mondo senza conoscere più me stesso e mi martoriavo correndo da parte a parte di quel luogo infinito senza vedere un’imperfezione del paesaggio, una frattura del terreno, tutto era inesorabilmente sempre identico a se stesso. Vagai per ore, forse giorni, senza incontrare nemmeno un frammento di presenza cosicché mi rassegnai a disperdere in quel luogo anche il mio stesso essere.
Mi accovacciai a terra, senza la forza di piangere, senza l’energia per disperarmi, ma sgomento fissavo il suolo polare infinito.
Improvvisamente il mio sguardo fu attratto dalla forma di quel volume che stringevo al petto e che avevo completamente dimenticato. Lo apersi, lessi il titolo, non ricordai di averlo mai letto. Atarassicamente presi a scorrere le pagine senza dar troppa importanza alle parole e così feci per diversi minuti, poi improvvisamente gli occhi mi caddero su una pagina:
«Accorto Odisseo dunque alla casa, alla terra dei padri subito adesso andrai? Ebbene che tu sia felice! Ma se sapessi nell’animo tuo quante pene t’è destino subire, prima di giungere in patria, qui rimanendo con me, la casa mia abiteresti e immortale saresti, benché tanto bramoso di riveder la sposa, che sempre invochi ogni giorno. Eppure, certo, di lei mi vanto migliore quanto a corpo e figura, perché non può essere che le mortali d’aspetto e bellezza con le immortali gareggino!»
E rispondendole disse l’accorto Odisseo:
«O dea sovrana, non adirarti con me per questo: so anch’io, e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla: è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza. Ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa, vedere il ritorno. Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare, sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle pene. Molto ho sofferto, ho corso molti pericoli fra l’onde e la guerra: e dopo quelli venga anche questo!»
Padre caro, lessi e rilessi queste frasi finché qualcosa nella mia mente riaccese la fiammella dell’intelletto. Allora mi ritrovai in quelle parole, mi ricordai dell’Odissea e del fatto che solo i grandi libri sanno dare grandi risposte se si sa interrogarli.
Cosicché finalmente seppi chi ero e quali erano i miei obbiettivi.
Seppi che dovevo tornare a casa come Odisseo glorioso.
Capii di essere caduto nel luogo dove si disperdono gli spiriti dimentichi di se stessi ed improvvisamente mi apparve una scala che scendeva dal tetto di quel luogo, la risalii e finalmente rividi la mia guida fanciulla.
«Sei svenuto», disse la bimba, «non sei ancora pronto. Dobbiamo aspettare un poco prima di riprovarci».
Io annuii e dentro di me già cercavo di prepararmi al prossimo incontro con mia madre.
Ma adesso, padre caro, è giunto il momento di chiudere questa missiva poiché c’è ancora molto da fare e mi dispiacerebbe impegnare tutto il tempo nella scrittura. Vi prometto di scrivervi nuovamente appena ce ne sarà il tempo e la possibilità.
Vi mando un caloroso abbraccio.
Rutilio
Le prime luci del giorno colsero il barone di Trino ancora intento a rileggere la missiva inviatagli dal figlio Rutilio.
A mezz’ora di marcia, sui pascoli di montagna, il vecchio Fabbrizzo aveva da poco terminato di mungere le vacche. Il mandriano, con in mano un secchio ricolmo di latte, percorse uno stretto sentiero dentro il bosco e una volta arrivato nei pressi di un’assolata radura si inginocchiò accanto ad una porzione di prato più verde e qui vi svuotò circa un litro di latte. Il vecchio Fabbrizzo, prima di tornare alla baracca, accarezzò dolcemente i ciuffi d’erba splendente.
La lettera che Rutilio aveva inviato al padre, se da un lato era riuscita a tranquillizzare il barone, dall’altro aveva contribuito a infondere nuove preoccupazioni al vecchio cuore del signore di Trino. Rutilio aveva promesso di farsi risentire a breve ma non aveva specificato quando.
Dopo i primi giorni di attesa, dopo le settimane angustiate, allo scoccare del sesto mese dalla scomparsa, a furia di notti insonni il vecchio barone aveva rischiato quasi l’esaurimento. Le querce avevano dismesso l’abito di bronzo dell’autunno e tanti scheletri di legno cominciarono ad incupire il paesaggio che si poteva osservare dalla finestra del palazzo baronale. Un Sole malato si arrese alla potenza delle tenebre notturne che presero a scendere rapide, nel cuore delle giornate, a sorprendere il passo dei viandanti.
Durante una di queste serate un vento gelido prese a bersagliare il villaggio di Trino facendo sbattere tutte le imposte mal fissate. Il vecchio barone osservava il fuoco del camino con espressione indolente non curandosi minimamente dell’integrità delle finestre. Improvvisamente il vento si placò e alle orecchie del barone giunse il suono flebile di una lettera infilata sotto il portone d’ingresso. Con un inimmaginabile scatto felino il barone corse a raccogliere la lettera e, dopo aver fallito l’individuazione del misterioso messaggero, strappata la busta, prese a leggerne avidamente il contenuto.
Caro padre,
sono passati circa tre mesi dalla mia ultima lettera, e circa sei mesi dalla partenza, so che ho sbagliato a non farmi sentire prima, ma credetemi davvero non ho potuto far di meglio poiché qui il tempo vola più velocemente che dovunque e ci sono così tante cose mirabili che lo svolgersi del presente è infinitamente più denso di ciò che riesco a scrivere, cosicché molto, purtroppo, deve restare nell’oscurità della mente, senza che da lì possa uscirne per fissarsi su carta.
Vi sto scrivendo questa lettera, infatti, appena dopo esser tornato da una mirabolante esperienza che subito vado a narrarvi.
Il mondo dei morti scorre ininterrottamente dal giorno della creazione verso l’eternità e sempre va aumentando il numero dei suoi defunti senza che nessuno da quel luogo possa uscire, tranne in autunno, quando con la morta stagione la natura sembra perder le sue forze, si rompon le barriere cosmogoniche e dall’aldilà si dipana un grandioso sciame di anime alla spasmodica ricerca delle gioie dei giorni perduti.
Così come il mandriano, dall’alto di un poggio, osserva le vacche percorrer la pista dei pascoli rigogliosi, così io ebbi ad osservare la folla di defunti che dai recessi più reconditi del passato volgevano il passo al borgo nativo ormai irrimediabilmente trasformato. A Trino tutti ci dirigemmo per far visita a coloro i quali avevano serbato di noi almeno una briciola di memoria.
In questo corteo che non lascia tracce nella polvere io stavo per ultimo, il posto che spetta a coloro che son giunti da poco nel regno dei morti, accanto a me la mia guida fanciulla mi teneva la mano guidandomi il passo. Io mi sforzavo di guardare il centro della processione dove cercai d’intravedere mia madre, ma i miei sforzi furono vani.
«Lei è molto più in avanti», disse la bimba, «purtroppo nemmeno oggi riuscirai a vederla».
D’un tratto la processione sfilò accanto ad un uomo disperato che piangeva inginocchiato accanto ad una misera croce di legno piantata tra le erbacce.
«Vedi quell’uomo», disse la bimba, «è il brigante Cacciafrittata. Dieci anni fa egli fu assassinato qui da un suo compagno che lo tradì».
«Ero un bambino quando accadde», risposi incominciando a ricordare, «ma se è morto da così tanto tempo perché è ancora qui?»
«Gli spiriti degli ammazzati», rispose la bimba, «sono condannati a risiedere nel luogo del loro assassinio fino all’età in cui sarebbero vissuti in terra. Mentre noi possiamo far visita ai nostri cari egli non può muoversi da lì finché non scocchi la sua ora naturale».
Era davvero una situazione triste quella di Cacciafrittata! Egli piangeva amaramente e nessuno dei morti parve prestare ascolto alle sue preghiere. Quando finalmente ci vide, in coda alla processione, prese a rivolgerci mille genuflessioni affinché prestassimo ascolto alle sue preghiere.
«Aiutatemi! Vi scongiuro!», disse Cacciafrittata, «non chiedo nulla in cambio, non sono un uomo malvagio, non vi porterò dolore né sventura. Vi chiedo solo un favore.»
«Parla», risposi io.
Subito il volto di Cacciafrittata s’illuminò di speranza.
«Guardate lassù», disse il brigante indicandoci la cima di un monte distante non meno di cinquecento passi, «vedete quella donna seduta su quel masso?»
Aguzzai la vista e scorsi la figura sfocata di una ragazza che sedeva su di un masso con la testa tra le mani sconsolata.
«Quella donna si chiama Rodostella», disse Cacciafrittata, «ha occhi verdi come i pascoli silvani e capelli ricci come il cordame dei vascelli spagnoli. Quando scioglie la sua chioma fa tremare la terra. Ha un cuore generoso, sapeva amare col medesimo ardore di quando, col pugnale, uccideva soldati e profittatori. Dieci anni fa fummo uccisi dalle medesime mani traditrici. Le nostre esistenze vennero diroccate. Io fui preso alle spalle, lei tentò di opporsi ma fu umiliata ed assassinata su quel masso. Da allora le nostre esistenze sono incatenate a questi luoghi ed impossibilitate ad incontrarsi finché non venga il giorno che la nostra condanna svanisca e allora, nel regno dei morti, potremmo finalmente riabbracciarci».
«Cosa possiamo fare per te?» chiesi a Cacciafrittata.
«Disidererei poter comunicare con lei», rispose il brigante, «sapete miei adorati ospiti, a volte, quando l’aria è percossa da una bava di vento ci mettiamo ad urlare per stabilire un flebile contatto e anche se il messaggio è disarticolato ed incomprensibile ci facciamo bastare quel soffio di suoni. Ah! Quanti viandanti ho terrorizzato durante questi anni! Comparivo loro dal nulla e li supplicavo con fiumi di lacrime di consegnare per me un messaggio a Rodostella. Mai nessuno ebbe il cuore di accontentarmi. D’inverno poi, quando s’alza un velo di nebbia, ella sparisce alla mia vista. Allora io mi metto a cantare e costruisco con le note un ponte di fiori e pietre preziose tra me e lei che, nel sogno, percorriamo per incontrarci».
«La vostra è davvero una triste storia», dissi al brigante Cacciafrittata, «comunicateci ciò che desiderate dire alla vostra amata e noi faremo volentieri da messaggeri».
Il brigante si passò la mano sul mento e prese a tormentarsi la barba. Divenne improvvisamente inquieto circa il messaggio da inviare a Rodostella.
«Ditele…», disse Cacciafrittata pensieroso, «ditele che durante tutti questi anni non mi sono mai stancato di aspettarla».
Io e la bimba iniziammo la nostra scalata del monte in direzione di Rodostella e più avanzavo più la bellezza di quella donna mi appariva vivida. A metà del nostro cammino Rodostella si alzò in piedi sul masso e con le braccia ci rivolse dei cenni di saluto e ci invitava a raggiungerla lassù sulla cima.
Quando finalmente giungemmo a dieci passi da Rodostella, questa ebbe un fremito, rivolse la sua mano verso di noi, fece un sorriso e disparve improvvisamente da quel luogo.
Mi voltai istintivamente verso Cacciafrittata che da quella distanza si distingueva appena ma riuscii comunque ad avvertire, tramite il linguaggio del suo corpo, un’espressione di drammatico scoramento. Il brigante si portò le mani alla testa e il suo corpo m’apparve come travolto da una ciclopica ondata.
Io e la bimba discendemmo il monte affranti e immaginandoci le ferite atroci che quella improvvisa sparizione dovevano aver creato nell’anima in pena di Cacciafrittata.
Quando giungemmo nuovamente nei pressi del brigante questi si inginocchiò, rivolse lo sguardo a terra e sparì nella stessa maniera di Rodostella.
«È andato anche lui», disse la bimba sorridendo, «era destino che queste due persone si riunissero proprio oggi. Adesso sono finalmente felici».
Restai alcuni secondi ad osservare il crocefisso di legno che spuntava tra le erbacce a segnalare il luogo dell’assassinio di Cacciafrittata e immediatamente mi accorsi che lungo il tragitto che io e la bimba avevamo compiuto per raggiungere Rodostella erano sbocciati un numero impressionante di fiori che avevano formato come una specie di ponte.
A quel punto io e la bimba affrettammo il passo per recuperare il terreno perduto e ci dirigemmo verso la coda della processione dei morti.
Finalmente giungemmo al villaggio, le lampade erano spente, le finestre erano tutte adornate dalle luci di esili candele per noi che morimmo.
Le strade deserte, brulicanti di spiriti, erano attraversate da qualche gruppo di cani randagi ululanti. Gli occhi bianchi dei gatti trafiggevano l’oscurità della notte, essi contendevano ai morti i piatti ricolmi di cibo lasciati in suffragio sui davanzali delle finestre.
Qualcuno aveva lasciato un bicchierino di vino. I defunti di quelle case vi intingevano il dito e passavano avanti.
Il campanile di Trino segnò la mezzanotte. Passai dalla nostra casa, caro padre. Vi trovai addormentato. Una smorfia d’infelicità vi rattrappiva il volto, un sonno sdrucciolevole vi smorzava il riposo.
Caro padre, vi prego, non state in pena per me.
Lette queste parole il barone prese a singhiozzare e assecondando l’istinto si voltò per guardarsi intorno con la speranza di vedere il figlio Rutilio o un segno del suo passaggio. Ma neppure uno scricchiolio si fece udire.
Il barone, prima di riprendere a leggere la lettera di Rutilio, emise un amaro sospiro di delusione.