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Parlare di cultura inventando le notizie, la comunicazione artistica che non funziona

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24 Set 2014   di Redazione
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Divulgare l’arte significa mettere alla portata di tutti argomenti scientifici. Ma in modo che sia appetibile. E a volte può essere un problema, soprattutto nell’ambito dell’archeologia, più “lontana da noi” e falsificabile

— di Niccolò Mottinelli

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Partiamo dal presupposto che la comunicazione del patrimonio culturale è un compito tutt’altro che semplice, e intendiamo comunicazione in ogni sua forma: dal vedere un servizio televisivo al leggere un articolo giornalistico, dall’ascoltare una guida turistica al consultare i pannelli esplicativi in uno dei “luoghi della cultura”. Si tratta di trasferire un contenuto scientifico, accademico, da esperti del settore alla società nel suo complesso, o meglio, potenzialmente a qualsiasi individuo della società.

Teoricamente, chiunque ha libero accesso a una pinacoteca, una mostra d’arte o un sito archeologico: un professore universitario, un adolescente distratto, un critico attento e sensibile o persino un individuo rozzo e disinteressato. Alla complessità di destinatari così diversi aggiungiamo la necessità di riassumere notevolmente il messaggio, perché chi non se ne occupa per professione ha chiaramente a disposizione un tempo limitato da dedicare alla godimento dei beni culturali. Ma il discorso deve risultare in qualche modo appetibile, cosa che non necessariamente interessa allo studioso, dedito di norma a raccogliere informazioni talvolta “neutre”, anche se mai sterili. Ecco perché si deve dunque aggiungere qualcosa, una scintilla che possa suscitare curiosità, interesse e piacere nella mente del fruitore.

Come per qualsiasi altra disciplina raggiungere questo scopo è particolarmente impegnativo. Si pensi per esempio a un chirurgo o a un agronomo che debbano spiegare e appassionare un uditorio generico, per di più rinunciando al proprio linguaggio tecnico e specialistico. Linguaggio che possiede naturalmente anche un professionista del patrimonio culturale e di cui anche egli deve in parte privarsi. Una parentesi merita l’archeologia.

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È ormai diffusa in ambito accademico e museale, se non nel mondo dell’arte, l’idea che la comunicazione del patrimonio archeologico necessiti di una propria autonomia, perché presenta problematiche più complesse di altri beni d’interesse storico-artistico. L’archeologia, infatti, si estende oltre che alla storia dell’arte e dell’architettura, anche alla cosiddetta “cultura materiale”, ossia a tutti quegli oggetti concreti non necessariamente “belli”, come manufatti e utensili legati alla vita quotidiana e ad attività produttive. Ed è per sua natura frammentaria. Mentre dall’età medievale in poi abbiamo a che fare nella maggior parte dei casi con oggetti percepibili nella loro interezza, o comunque simili a come furono concepiti al momento della loro realizzazione, in archeologia questo avviene rarissimamente.

Oltre ai frammenti ceramici e alle rovine architettoniche (sono pochissimi i monumenti antichi che conservano l’alzato e il volume interno originari), si pensi ad esempio che la grandissima parte delle statue era dipinta. Quanto è importante il colore nella valutazione e nella ricezione di un’opera d’arte da parte dell’osservatore? Provate a immaginare un dipinto dell’espressionismo tedesco in bianco e nero. È praticamente impossibile. E che dire della pittura antica, che era percepita nel mondo classico come la vera grande arte, più della scultura? Se si quella greca il naufragio è quasi completo, per la romana possiamo rivolgerci ai casi eccezionali dell’area vesuviana. Ma spesso si dimentica che gli affreschi delle dimore pompeiane erano copie di opere d’arte celebri, originali esposti nei grandi edifici pubblici di Roma e altre grandi città dell’impero. Ciò che ammiriamo a Pompei è da considerarsi artigianato domestico più che arte in senso stretto. È qualcosa di analogo al voler apprezzare le tele di Delacroix osservando repliche in scala ridotta disponibili al negozio del Musée du Louvre. Impensabile, no? Eppure per l’arte greco-romana non possiamo che accontentarci – e ritenerci anzi fortunati – di questo lacunoso stato di cose.

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L’archeologia copre una delle percentuali più ampie di musei e siti di interesse culturale in particolare in Italia, ma anche nel resto del mondo. Ma lo stesso discorso andrebbe fatto per numerose tipologie di luoghi, ad esempio per i musei etnografici, scientifici o naturalistici, ognuno dei quali ha una specifica complessità comunicativa. Ambiti spesso tralasciati quando si discute di patrimonio culturale, ma che rientrano a pieno titolo nella “Cultura” di una società. Senza dimenticare i parchi naturali e paesaggistici, basti pensare che il principale riferimento normativo che attribuisce al Ministero per i Beni e le Attività Culturali la funzione di tutelare, conservare e valorizzare il patrimonio culturale italiano è il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Come ribadisce l’articolo 9 della Costituzione Italiana, “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

I tentativi mediatici e giornalistici di superare le difficoltà comunicative che sussistono nella descrizione del patrimonio culturale alla società comportano rischi non indifferenti, soprattutto per l’archeologia. Accade spesso che, per garantire la ricezione di un uditorio quanto più ampio possibile, le informazioni vengano distorte al punto da risultare inesatte o falsificate. I fastosi titoli ad effetto e le intestazioni cariche di pathos, utilizzati anche dalle più autorevoli testate giornalistiche, possono effettivamente richiamare un certo numero di lettori, ma gli strumenti retorici arrivano anche a soffocare o mistificare il messaggio. Di rado nell’ambito della comunicazione culturale viene denunciato l’utilizzo di un certo tipo di linguaggio sensazionalistico, quasi ci si sentisse in qualche modo autorizzati a ricorrervi indiscriminatamente. Eppure, per fare un esempio, la notizia di cronaca nera che si focalizza sui dettagli più macabri e morbosi o tenta di trarre conclusioni sui possibili assassini è “deviante” rispetto alla realtà quanto la scoperta di una sepoltura associata senza motivo a un grande nome della storia.

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La divulgazione finisce per assumere un’accezione negativa, come di svilita e “popolare”. Rodolfo Lanciani (1845-1929), uno dei più illustri conoscitori della città di Roma, parallelamente alle opere scientifiche rivolte alla comunità di esperti, scrisse testi destinati a un uditorio meno specialistico. Testi appunto divulgativi, per appassionare alla conoscenza della storia e dei monumenti romani un pubblico più vasto. Come riuscire a comunicare correttamente il patrimonio culturale? Che si tratti di scrivere per riviste non specialistiche o di tenere pubbliche conferenze, ciò che conta è il modo: una divulgazione dal contenuto elevato ed espresso correttamente non può che perdere qualsiasi connotazione negativa.

Uno dei metodi migliori per tenere vivo l’interesse del pubblico è attualizzare ciò che il passato ci ha lasciato: non nel senso di privilegiare le analogie rispetto alle differenze storiche (che è anzi un’operazione impropria) ma di attingere alle esperienze di chi ha ci ha preceduti, anche in un presente che siamo spesso portati a percepire come evoluto e migliore. Se poi qualcuno ha dubbi sul perché sia importante dar voce al patrimonio culturale per trarne ispirazione e insegnamento, potrebbe rileggere le parole dello scrittore statunitense Henry Valentine Miller (1891-1980): «L’arte non ci insegna nulla, salvo il significato della vita». Detto fatto.

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