Racconto | «Alle volte mi chiedo se l’universo abbia un piano genialmente costruito sulla mia persona, un’immensa barzelletta basata sull’humor inglese»
[Room in New York di Edward Hopper ]
Continuo a chiedermi cosa ci faccio qui, mi sento totalmente fuori posto, questa giacca poi, dannato Federico che mi ha convinto a metterla. «Basta con quest’aria trasandata» ha detto «devi essere presentabile» ha continuato «e poi, mica vorrai farti vedere da Lizzy conciato come tuo solito» . Gli avevo chiesto che cosa avesse di strano il mio solito modo di vestirmi, era una parte di me infondo. Lui si era limitato a rispondermi con una sonora risata seguita dal lancio della giacca tra le mie braccia.
Ed ora, totalmente confuso tra anima e corpo, mi ritrovo qui, ad una festa di perfetti sconosciuti. Anime probabilmente ancora più confuse di me che si ritrovano a girovagare da un’ombra all’altra per fare conoscenza o per intrattenersi in chiacchiericci di circostanza. A me le feste mettono tristezza. Non sono certo un tipo socialmente riconosciuto come espansivo e capace di adattarsi ad ogni situazione. Duttile, ecco la parola che cercavo. Oh, sto ancora parlando con me stesso, che poi “me stesso”, in realtà immagino di avere un interlocutore interessato a ciò che dico, che segua con passione ogni mia parola che esce fluida e disincantata dalle mie labbra. Questo me stesso non esiste, perché non esiste che io sappia intrattenere qualcuno in maniera così affascinante.
Al diavolo, vado a prepararmi un altro negroni.
La giacca mi stringe all’altezza dei dorsali, la detesto. Odio i dannati vestiti formali: cravatte, camicie, giacche, tutte cose che in qualche modo mi fanno sentire compresso, incapace di muovermi come vorrei, sciolto e disinibito. Ecco, per sistemare questo dannato elemento di tortura psicologica ho tirato una gomitata ad un tipo, magari non se ne è accorto, magari, eh no, invece no. Un tipo belloccio, capello pettinato ma volutamente squinternato, barbetta leggermente incolta, camicia ben sistemata, profumo perfetto, denti smaglianti. Ho giusto il tempo di notarli perché rideva per una battuta, ma poi si gira verso di me ed è serio. Diamine se è serio.
Capisco che sta parlando con una donna.
Capisco che vuole che chieda scusa.
Capisco che sta cercando di mettere in atto quella pratica sociale del maschio dominante, ha un fascino retrò questo atteggiamento.
Chiedo scusa, lui mi sorride con quella perfezione odontoiatrica quasi a spiattellarmi in faccia quanto sia perfetto in tutto, anche nell’avere semplicemente dei denti, mi intona un tranquillo “Figurati» e torna alla sua interlocutrice.
Sbuffo e sgrano gli occhi. Sono proprio un coglione. Come sarebbe possibile descrivere una persona che non sa assolutamente interagire con il mondo esterno a causa, sostanzialmente, del suo corpo che si muove come se esistesse solo lui?
Intanto il peggior cliente di ogni dentista qui accanto mette in atto, in maniera moderna, la tattica dell’uomo territoriale.
«Scusami» dice alla ragazza davanti a lui «So che non lo ha fatto di proposito, però sai» brillante «Sono una di quelle persone che non ama essere toccato e stare in mezzo alla gente» .
Mentre afferro il Gin mi chiedo come possa scopare un tizio del genere, telefonicamente? Oppure, se viene toccato troppo dalla tipa che sta cercando di esprimere il proprio desiderio accarezzandogli la schiena, le taglia le mani?
Ma sorvolando.
Afferro il bitter e dico ad alta voce «Quindi fammi capire” tono serio ma palesemente sarcastico «A te non piace essere toccato e stare in mezzo alla gente» metodo socratico «quindi pensi che il punto migliore dove mettersi a fare due chiacchiere da rimorchio sia dove c’è la roba da bere?» L’amara realtà dei fatti non narra quanto appena descritto, i miei occhi stanno vagando sul tavolo, la bocca ben serrata, e le mani che frenetiche vanno cercando il vermut su quel tavolo che sembra una galassia di bicchieri di plastica rossi e bottiglie a metà.
Alle volte mi chiedo se l’universo abbia un piano genialmente costruito sulla mia persona, un’immensa barzelletta basata sull’humor inglese. Ora mi sto chiedendo se sia normale che, tra tanti luoghi possibili su quel tavolo, il vermut si trovi proprio ad una distanza impossibile da raggiungere per il mio povero braccio privo di controllo effettivo e che sia, oltretutto, precisamente in una porzione di spazio che mi costringe a chiedere all’afefobico al mio fianco di potersi spostare.
Il piccolo bambino che risiede sul trono di stupidate nel mio cervello mi convince che esistono due modi per poter raggiungere la bottiglia a me necessaria per completare il negroni:
Opzione A
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Dare dei colpetti sulla spalla del tipo in modo da attirare la sua attenzione.
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Genuflettersi in maniera oculare per rendere palese la propria inferiorità mettendo sul piatto anche delle scuse reverenziali per averlo interrotto una seconda volta.
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Farfugliare uno “scusami”.
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Afferrare la bottiglia di vermut.
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Tornare nella propria oscurità.
Opzione B
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Dare dei colpetti sulla spalla del tipo in modo da attirare la sua attenzione.
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Mostrare un’espressione sicura ben fornita di un sorriso smagliante.
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Spiegare con una battuta fine che si trova un tantino tra le palle.
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Afferrare il vermut.
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Completare il cocktail e salutarlo con sorriso ed occhiolino.
Il piccolo infante che regna le mie sinapsi sghignazza nell’assistere alla messa in atto totale dell’opzione A. Il piccolo maledetto regnante cade dal trono dalle risate nel vedermi quando comprendo che l’interlocutrice del tipo belloccio altri non è che Lizzy.
Il panico prende possesso di quell’ammasso incontrollabile di carne ed ossa che è il mio corpo. Riabbasso lo sguardo, cerco di versare il vermut, riesco a versarlo ma gran parte va sulla tovaglia. Mi guardo intorno. Nessuno mi ha visto. Alle volte sono felice di quel manto d’ombra che mi porto dietro, che non fa notare al mondo intero che esisto.
Federico però è alla festa con me, sa della mia esistenza.
«Ma che stai combinando?» sghignazza «Che ti prende?»
Mi allontano e mentre inizio ad ingurgitare il mio negroni mal fatto spiego a Federico tutta la faccenda della gomitata, il tipo belloccio, i denti, l’afefobia, il vermut. Federico continua a sghignazzare. «Ma ti dai una calmata?» , mi dice «quello è solo un coglione che si atteggia» Ho finito il negroni. «Facciamo così, ora trovo un modo per togliere quel tipo di mezzo, però tu poi devi andare da Lizzy e parlarci».
Solitamente viene definito infinitesimale quel lasso di tempo che intercorre tra la luce del semaforo che diventa verde e uno che inizia a suonare il clacson dietro noi. Sono convinto che riuscirò a fermare Federico, sono convinto che ci sia riuscito effettivamente. Ma vivo d’illusioni. Mi ritrovo da solo, un’altra volta, e nel panico più totale.
Se conosco Federico sarà andato a chiedere a qualche sua amica di andare dal tipo e levarlo di mezzo con qualche scusa banale. Le convenzioni sociali durante le feste sono qualcosa di bello da osservare. Se abbiamo infatti un soggetto M e un soggetto F che stanno parlando per la prima volta e tra essi aggiungiamo un terzo soggetto della stessa matrice di M o F che prova ad interagire con il suo opposto, si creerà quella situazione d’imbarazzo che porterà i due soggetti M e F iniziali ad allontanarsi.
Il bicchiere nella mia mano destra è vuoto, ma tutta la mia attenzione è incentrata sulla coppia soggetto M e soggetto F, così la mia mano decide di portare il bicchiere alla bocca e i muscoli della mia bocca decidono di contrarsi come se dovessero accogliere del liquido che ovviamente non arriva. I mie occhi intanto osservano.
M e F sono vicino al tavolo, un terzo soggetto F si avvicina ai due senza però interagire con nessuno. Cerca qualcosa sul tavolo, sarà il vermut? Non ha importanza. Picchietta sulla spalla del tipo, quello si gira, lei sorride e lo riconosce, o almeno così sembra. Gli salta al collo chiedendo come sta, dove era finito, che cosa stava facendo. Mentre M risponde con palese incomprensione al nuovo soggetto F, il soggetto F originale si guarda intorno con uno sguardo misto tra il divertito e lo stupito. M e nuova F si allontanano mentre il soggetto F originale rimane li al tavolo a guardare la scena, ora meno divertita.
Nella mia mente compare Federico, ancora, che m’intima di andare e prendere il controllo della situazione.
Passo sicuro, sguardo tranquillo, arrivo al tavolo e ricomincio a preparare un negroni.
«Avevi dubbi?» dico con fare disinteressato mentr…
No dai che inizio di merda.
Mi scosto dalla parete dove mi ero andato a rifugiare, il passo questa volta e non curante, quasi a dire “Ehi, sti cazzi!» , arrivo al tavolo, lo guardo in cerca di ciò che mi serve. Lei ancora guarda con la coda dell’occhio il tipo che da un momento all’altro l’ha lasciata li da sola e le chiedo “Scusa mi passeresti quella bottiglia?» .
No, non ci siamo proprio.
Mi avvicino al tavolo, inizio a prepararmi il cocktail, la guardo una volta di sfuggita, una seconda forse un pochino più attenta. «Dov’è che ci siamo già visti?»
Eh certo, che scusa banale.
Ecco cosa faccio. Allora, mi avvicino al tavolo. Tranquillo, riesco anche a controllare i movimenti che faccio. Appena arrivo lei si allontana.
Dai, ti pare che riesco a darmi buca da solo?
In tutto questo non mi sono reso conto che sono già al tavolo e mi sto già preparando il negroni. Sento il suo profumo accanto a me, è dolce ma non troppo, forte ma non fastidioso. Riesco a guardarla con la coda dell’occhio e non riesco a non pensare quanto sia bella con quel poco trucco che si mette sugli occhi. Niente rossetto. Mi giro appena verso di lei con un sorriso appena accennato ma palesemente imbarazzato.
Lei mi vede, sorride ed io rimango estasiato. La cosa che più mi piace è proprio il suo sorriso.
China appena la testa verso sinistra.