Il commento | La presidenza della Figc è vacante fino all’11 agosto. Ad Albertini i club preferiscono Tavecchio così l’establishment di sempre si rinnova. Ma il calcio no
— di Paolo Bardelli (TuttoCalcioEstero.it)
Anno 2014, Italia, Europa. Il calcio nostrano si trova a fare i conti con il fallimento mondiale, il risultato sportivo salta all’occhio. E le cause sono da ricercare, problematiche annidate nei gangli del sistema paese. Lo sport più popolare è semplicemente l’immagine che lo specchio ci restituisce. Prandelli e Abate se ne sono andati, alleluja, questione risolta? Nemmeno per sogno, incombono le elezioni del nuovo presidente della Figc. Due candidati: da una parte il 71enne Carlo Tavecchio, dall’altra Demetrio Albertini, classe 1972 ed ex calciatore. L’11 agosto il calcio italiano sarà chiamato a scegliere il proprio futuro, un’elezione che nelle ultime settimane ha sempre più assunto una connotazione che esce da questioni prettamente sportive per assumere evidenti contorni politici.
Delle parole pronunciate da Tavecchio circa gli stranieri in serie A si è già scritto tanto, l’etichetta di “mangiabanane” è roba che nemmeno nei minstrel movies dell’America segregazionista avremmo sentito. Verdi ricordi anni 30. Non siamo un popolo di centometristi, ma quando si tratta di smentite lo sprint è degno del miglior Bolt. In molti si sono affrettati a minimizzare, lo stesso Tavecchio ci ha regalato il classico dei classici «non sono razzista». Incipit di ogni frase razzista che si rispetti. Ma andiamo con ordine. Questa “gaffe” (come alcuni hanno avuto l’ardire di definirla) non è il primo imbarazzo di una lunga carriera ben incastonata negli ingranaggi del sistema Italia.
Sindaco di Ponte Lambro dal 1976 al 1995, molte le cariche come quella di consulente del Ministero dell’Economia per “le problematiche di natura fiscale e tributaria riguardo alla sfera dell’attività sportiva dilettantistica”. Ebbravo Ministero, come chiedere a un lupo consigli su come badare il gregge. È infatti ironico che il dirigente lombardo sia stato processato e condannato ben cinque volte, 2 mesi e 28 giorni di reclusione è la pena ottenuta nel 1994 per evasione fiscale. Ne abbiamo per tutti i gusti, dall’abuso d’ufficio alla falsità in titolo di credito, passando per la violazione delle norme anti-inquinamento.
Questo e molto altro è Carlo Tavecchio, l’uomo secondo il quale i romani saranno pure «coatti e mangiatrippa» (l’ha detto davvero, cercare per credere) ma che nella Capitale gode di un certo credito. Dalla sua parte, senza se e senza ma, c’è il patron laziale Claudio Lotito, la Roma giallorossa si è invece schierata fin dal primo momento con Demetrio Albertini, trovando nella Juventus un’insolita partner. Fiorentina, Sampdoria, Sassuolo e Torino hanno fatto un passo indietro e anche altre squadre potrebbero cambiare rotta. La maggioranza resta comunque in mano a Tavecchio: serie A, B, Lega Pro e Dilettanti al momento sono con lui.
La politica nazionale si è mobilitata dopo lo scivolone razzista, Pd e Sel chiedono a Tavecchio di ritirarsi dalla corsa, del medesimo parere Renzo Ulivieri e Damiano Tommasi, persino la Fifa – bella addormentata nel bosco – ha aperto un’indagine. Alzi la mano chi reputa Blatter un illuminato progressista. Il diretto interessato – come è buon costume italico – al passo indietro non ci pensa nemmeno e prosegue la sua corsa verso la poltrona forte dell’appoggio da parte dell’opposizione. Razzismo, condanne e incarichi decennali, abbiamo un bel campionario da discutere, peccato però che a passare in secondo piano siano i programmi e le idee.
Demetrio Albertini qualcosa sul tavolo l’ha messo: serie A a 18 squadre, sostenibilità finanziaria, rose con un massimo di 25 giocatori dei quali dieci locali. Nessun blocco agli extracomunitari, “falso problema” secondo l’ex giocatore del Milan, meglio proporre squadre B dove far maturare i giovani secondo il modello spagnolo. Non sono pozioni magiche, ma semplici misure di buonsenso per migliorare la situazione. La serie A, così come è conformata, è la tomba del talento, nonché un prodotto poco appetibile per i clienti stranieri. Venti squadre sono un’enormità, il livello medio è basso e operare in tal senso sarebbe qualcosa. l’Italia ha molte risorse, tra i difetti però c’è senza dubbio la ricerca dell’uomo forte con il “ghe pensi mi” nel taschino.
Beh, bisognerebbe ricostruire pezzo per pezzo, iniziando da questioni che di sportivo hanno poco, come la dignità degli esseri umani. Qualcuno ha definito la banana mangiata da Prandelli e Renzi, sull’esempio di Dani Alves, uno spot. Indubbio che sia stata colta l’occasione per far bella figura, ma è altrettanto evidente che le parole di Tavecchio denotino, oltre a un razzismo di fondo che minimizzare è ridicolo, una certa mancanza di intelligenza.
Eccoci tornati all’inizio della nostra riflessione. Le cose vanno male, ma non è ancora chiaro il perché. Due elementi che il caso Tavecchio pone alla nostra attenzione sono sintomatici del malfunzionamento della macchina Italia. Il primo è proprio l’incompetenza di persone al timone da decenni, l’astuzia del governante pare un ricordo nostalgico da prima Repubblica. Di questo passo finiremo per rimpiangere anche il telegrafo. In secondo luogo è evidente come in Italia i centri di potere tendano ad auto-preservarsi. Mentre le elezioni politiche, almeno come facciata, sono chiamate ad assecondare istanze di rinnovamento, ecosistemi come quello che amministra il nostro calcio invece possono reggersi sulla base di equilibri e scambi collaudati. Il sistema vota se stesso senza dover rendere conto. A nessuno conviene cambiare, perché farlo?
Non è voglia di rottamazione, termine tra l’altro già triturato e digerito dall’industria della parola, Tavecchio è nella stanza dei bottoni da decenni, il nostro presente non scintilla e affidarsi a un 71enne per progettare il futuro sarebbe una scelta curiosa. Non stupisce che sia quella dei vari Franco Carraro e Antonio Matarrese. Se non sapete chi sono vi basta un’occhiata su Wikipedia, al contrario crediamo non servano ulteriori spiegazioni.