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L’esperimento di Facebook: emozioni contagiose e utenti ingenui

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5 Lug 2014   di Federico Sbandi
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Un campione di 689.003 utenti, il social network come universo di riferimento. Così Facebook dimostra quanto le emozioni siano contagiose. E, indirettamente, che l’ignoranza digitale dilaga

Antefatto. Nella settimana tra l’11 e il 18 gennaio 2012 Facebook compie un esperimento sociale utilizzando come campione di riferimento 689.003 dei suoi utenti. Per il tempo dell’esperimento modifica l’EdgeRank, ovvero l’algoritmo che regola le sorti dei contenuti che compaiono sulla Home degli iscritti alla piattaforma di social networking. Attraverso un sistema di analisi computerizzata dei testi, sfruttando il software Linguistic inquiry and word count, riesce a determinare il sentiment dei contenuti pubblicati dagli amici del campione di riferimento: 4 milioni di parole positive e 1,8 milioni di parole negative su un totale di 3 milioni di post analizzati. Dunque, distorcendo l’algoritmo, fa in modo che parte dei 689.003 utenti in esame sia esposta a contenuti principalmente positivi mentre la restante parte sia esposta a contenuti negativi.

esperimento facebook

I RISULTATI – Sono stati pubblicati di recente sulla rivista Proceedings of the national academy of sciences e hanno fondamentalmente confermato quanto le emozioni, di qualsiasi tipo esse siano, tendano ad essere «contagiose». A contenuti positivi è corrisposto un incremento della positività dell’utente sotto osservazione. Idem dicasi per gli utenti sottoposti ad input negativi: erano i più propensi a depotenziare il grado di positività dei loro post. Di fatto, l’esperimento ha oscurato la teoria secondo cui gli utenti tenderebbero a reagire in opposizione alle emozioni palesatesi nella loro Home, per contrasto. Non è vero che se un iscritto riceve input positivi su Facebook tende a ritenersi insoddisfatto per contrapposizione alla (presunta) felicità altrui. Al contrario, emulazione ed empatia guideranno il suo umore futuro.

esperimento facebook 2L’esperimento di Facebook è stata la prima, storica, evidenza empirica a supporto della tesi secondo cui la manipolazione di piccole variabili può avere «grandi conseguenze aggregate» in virtù della massiccia realtà sociale che amplifica a dismisura contenuti in pochissimo tempo. Così come un virus infetta rapidamente l’organismo di un essere vivente, un contenuto virale contagia rapidamente la rete sociale dell’utente che lo ha prodotto. La felicità di uno può diventare, in termini statistici, la felicità di tanti.

LA MORALE DEL «SI SAPEVA» – La prima grande reazione degli utenti è stata la trita e ritrita saccenteria da psicologi da bar: «si sapeva». A sentire gli utenti, a caldo, si sa sempre tutto. Per fortuna la scienza prosegue dritta per la sua strada e in un contesto storico in cui non avere un profilo Facebook è per molti addirittura fonte di sospetto – «avrà qualcosa da nascondere?» – sperimentare dinamiche sociali in Rete con criteri empirici non può che favorire la discussione sul tema del digitale.

E magari, paradossalmente, gli utenti che tendono a dare sempre tutto per scontato sono gli stessi internauti che abboccano quotidianamente a qualunque forma di manipolazione in Rete. Basti pensare al leitmotiv dei gattini sdoganato da Repubblica.it & soci, che ha il solo scopo di toccare le corde più emotive e sensibili dei lettori per sospendere la loro razionalità e indurli ad interagire con la pagina – pur essendo un contenuto che di informativo non ha nulla –. «Si sa», diranno, eppure migliaia di pagine Facebook lucrano sul buonismo dilagante di taluni post, ed evidentemente gli utenti non sono così illuminati da respingere al mittente l’input emozionale. O basti pensare a tutte quelle campagne pubblicitarie – organizzate dai colossi del marketing internazionale – che cercano di raccontare brevi storie positive che nulla sembrano avere a che fare col prodotto sponsorizzato, semplicemente perché i marketers sanno che un frame positivo è l’arma migliore per creare un legame emotivo (e dunque, non razionale) tra brand e consumatore.

Insomma, vi diranno sempre che «si sa», ma utenti e consumatori hanno storicamente margini di manovra molto più ridotti di quelli che in realtà pensano arrogantemente di avere. E questo tipo di esperimenti hanno il giusto merito di riportare tutti alla realtà. In un mondo in cui la scacchiera è posseduta da altri, persino le emozioni degli utenti possono divenire pedine di un gioco più grande di loro stessi.

esperimento facebook 3

PRETENDERE DI COMANDARE IN CASA ALTRUI – Ovviamente, come prevedibile, l’esperimento ha alzato un consistente polverone che non ha fatto altro che legittimare l’idea stessa di Zuckerberg & soci, mostrando una volta per tutte l’atteggiamento, ingenuo e presuntuoso, dell’utenza.

«È illegale giocare coi nostri sentimenti!» o ancora «Facebook non può modificare l’algoritmo per i suoi esperimenti!». Questa ed altre lamentele hanno accompagnato la pubblicazione dei risultati dell’esperimento, palesando la totale incomprensione del mezzo di cui gli utenti si avvalgono – gratuitamente, ricordiamo – da anni. In primis, perché nei termini di servizio di Facebook l’iscrizione implica automaticamente l’accettazione incondizionata della partecipazione a eventuali ricerche (questo lo sapevate?). In secundis, perché l’EdgeRank viene continuamente modificato a seconda degli interessi commerciali della piattaforma ospitante, e non sarà certo questa piccola deviazione emotiva a rendere più o meno immorale l’andamento dell’algoritmo. Terzo, perché anche solo a rigor di logica, rendere noto l’esperimento agli utenti avrebbe immediatamente invalidato il test sociologico in corso.

Pretendere di comandare su un terreno virtuale di cui non si è proprietari è come farsi ospitare da un amico, a cena, gratuitamente, e poi pretendere che sia servita la carne al posto del pesce. Il fatto che questo tipo di notizie social-i scatenino puntualmente l’ira funesta di buona parte dell’utenza è un ottimo campanello d’allarme per segnalare il grado di arretratezza digitale dell’intera popolazione virtuale sparsa in giro per il globo. Perché non leggere i termini di servizio è umano, ma – almeno in questo caso – lamentarsi della presunta immoralità di Facebook è diabolico. 

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di Federico Sbandi
Triennale in comunicazione. Che non vuol dire esperto di merendine. Specialistica in pectore. Social Media Editor per passione (qui) e per lavoro (altrove). Twitter-addicted. Mission personale: dimostrare a quelli col Q.I. dei leghisti che, sì, di comunicazione si mangia. E ci si diverte pure.


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